Paolo Isotta, Corriere della Sera 9/12/2012, 9 dicembre 2012
I giornali, con gli articoli di rincalzo a quelli dei critici musicali, hanno ampiamente riportato descrizioni della vergognosa regia di Claus Guth apposta al Lohengrin inaugurale della stagione lirica della Scala, l’altroieri
I giornali, con gli articoli di rincalzo a quelli dei critici musicali, hanno ampiamente riportato descrizioni della vergognosa regia di Claus Guth apposta al Lohengrin inaugurale della stagione lirica della Scala, l’altroieri. Debbo tuttavia farlo anche io, come ho promesso ai lettori. Quando ho presentato l’«Opera Romantica» (così Wagner) ho spiegato che l’azione si svolge nell’Alto Medio Evo, precisamente nel secolo X, nel Brabante, ove l’Imperatore, nel testo di Wagner chiamato sempre «König», Re, si trova per raccogliere un esercito che combatta contro gl’Infedeli. La figlia dello scomparso Duca, Elsa, viene accusata dal fiore della Cavalleria, il conte Federico di Telramondo, di aver assassinato il fratellino Goffredo, erede del Ducato. Nessuno osa affrontare Federico in Giudizio di Dio, ma dopo ripetuti appelli giunge un cavaliere argenteo, che alla fine del terzo atto apprendiamo chiamarsi Lohengrin, figlio di Parsifal principe della rocca salvifica del Monsalvato. Il cavaliere arriva sulla Schelda su di una navicella trainata da un Cigno. Il regista Guth, agli ordini del quale sta l’autore dei bozzetti e dei figurini, Christian Schmidt, ambienta la vicenda alla metà dell’Ottocento. Tranne il finale, che si svolge in un canneto con un ruscello dove Lohengrin fa il pediluvio, la vicenda è ambientata in una casa di ringhiera, di quelle che le agenzie immobiliari chiamano «Vecchia Milano». Lohengrin non ha navicella né cigno, giace bocconi e canta il «Saluto al cigno» sdraiato a terra, terra sulla quale per gran parte del Dramma sempre bocconi si trova. Il regista lo fa narcolettico e ammalato di Parkinson. La scena è percorsa da un disgraziato ragazzo con un braccio ala di cigno e da mocciosi come nella Butterfly di Puccini. Un pianoforte verticale e alberi sono il resto dell’arredamento. Il coro o sta in frac o si schiera come «Il Quarto Stato» di Pelizza. Lo spettacolo è, così, tetro e cretino. Buona parte del pubblico «nomenklatura» di venerdì non era al corrente dei presupposti or descritti ed ha apprezzato, ma senza spiegazioni psicoanalitiche contenute nel programma di sala non poteva capire niente. Il maestro Barenboim dirige, come ho scritto, benino, con eccesso di «vibrato»: non arriva certo alle altezze dei Maestri Leinsdorf, Solti, Cluytens, Karajan, Kubelik, Kempe, Jochum, Keilberth, Thielemann, a non parlare degli italiani Marinuzzi, Gui e Serafin, che in questa partitura non ho potuti ascoltare. Ma va rilevato che l’orchestra della Scala ha perduto di identità, quella che gli aveva dato Riccardo Muti, e soffre, già s’è visto nel Preludio, nell’intonazione. Jonas Kaufmann canta meravigliosamente; ha dei «piano» da brividi e con la sua dizione e con la sua splendida presenza in scena aiuta l’impostazione della regia; senza di lui avrebbero dovuto chiudere il Teatro. Annette Dasch, giunta per pronto soccorso nella notte, non solo canta benissimo ma s’inserisce da padrona di casa nella regia. Tomas Tomasson, Federico, ha la voce che balla e mancato due «Fa». Evelyn Herlitzius ha personalità grande e voce splendida sì da offrirci un’Ortruda indimenticabile. René Pape, l’Imperatore, è il più qualificato vivente per la parte. L’Araldo, ruolo del quale Wagner era innamorato, Zeljko Lucic, non ha lo squillo. Ripeto che il Coro, co-protagonista, retto dal maestro Bruno Casoni, è un autentico punto di forza.