Ferruccio de Bortoli, Corriere della Sera 9/12/2012, 9 dicembre 2012
(f. de b.) (f. de b.) Questa è la cronaca di ore drammatiche nella vita del Paese che mai avremmo voluto scrivere
(f. de b.) (f. de b.) Questa è la cronaca di ore drammatiche nella vita del Paese che mai avremmo voluto scrivere. Un governo muore così. Nella Festa dell’Immacolata, a mercati chiusi, ma a occhi ben aperti di una comunità internazionale che non capisce e da domani ci farà pagare un prezzo assai alto. La ridiscesa in campo del Cavaliere aveva già prodotto, dalla convulsa serata di mercoledì, un terremoto inarrestabile, ma sono state le parole di Alfano pronunciate venerdì alla Camera a far cadere le ultime resistenze del Professore. Ricorda un dispiaciuto presidente della Repubblica, al termine del lungo colloquio di ieri, nel quale il premier uscente gli ha manifestato, con cortesia e fermezza, la propria volontà di dimettersi («così non posso continuare»), che tutto è cominciato alla fine del Lohengrin alla Scala nella serata di Sant’Ambrogio, dopo quella prima alla quale, forse con anziana preveggenza, aveva deciso di non partecipare. «Ci siamo sentiti subito dopo», dice Napolitano. Ed era già evidente, seguendo il filo del racconto del presidente, il disagio, il disappunto, non la rabbia perché quella non fa parte del vocabolario di un Professore abituato a misurare le parole, a dosare aggettivi e mosse, la sua volontà di porre termine a un anno di governo, che per lui è stato pari a un decennio, di sofferenze, ma anche di soddisfazioni, specie internazionali. Troppa la pressione, l’esecutivo si sarebbe trasformato nei prossimi mesi in un facile bersaglio elettorale. Quando Monti parla al telefono con Napolitano in una saletta della Società del Giardino, antico circolo milanese, sede del ricevimento scaligero, non ha ancora avuto modo di leggere con attenzione le parole pronunciate alla Camera dal segretario Alfano poche ore prima. Conosce i titoli e il senso dell’intervento, ma non lo ha ancora letto né tantomeno soppesato. Le cinque ore trascorse nel Piermarini ad assistere alla rappresentazione wagneriana, la leggenda dell’eroe romantico in una terra percorsa da liti e contrasti, lo hanno tenuto nervosamente occupato. Forse non lo hanno nemmeno appassionato. Parla poco, Monti, alla Scala. Rilascia solo una enigmatica dichiarazione sul Re Sole, ovvero Berlusconi, che si è allontanato da lui. Ma forse vede accanto al cigno bianco di Lohengrin anche quello nero per il suo governo, recapitato dal duo Berlusconi-Alfano, con una musica certamente più sgradevole. Il colloquio telefonico di venerdì sera con Napolitano è il prologo di quello ben più drammatico di ieri sera. La moglie Elsa, incontrata da chi scrive in una sala della Società del Giardino, appare turbata. «Mario? È su che sta telefonando». Chi la conosce da tanti anni capisce che qualcosa sta succedendo. E veniamo alla giornata di oggi. Monti racconta di essere stato a Cannes, al World Policy Conference. «Non ho risposto per tutta la giornata alle molte domande che mi venivano poste, soprattutto dagli stranieri. Ho colto il loro sbalordimento per la situazione italiana». Il Professore racconta di essere andato a Cannes dopo aver letto e riletto la dichiarazione di Alfano e di essersi convinto che quella era la vera mozione di sfiducia nei confronti del suo governo. «Mi sono sentito profondamente indignato nel leggere quelle parole». Sprezzanti sui risultati ottenuti, violente nei toni, profondamente ingiuste — è il pensiero di Monti — anche sulla politica estera, non solo su quella economica. E si domanda, il premier, perché non siano stati più coerenti i rappresentanti del Pdl, partito per lunghi mesi responsabile e disciplinato di quella che un tempo era, per sua definizione, una «strana maggioranza», a votargli subito la sfiducia. «Sarebbe stato preferibile». E non si capacita, il Professore, che le parole liquidatorie e persino insultanti le abbia pronunciate un segretario del Pdl «sempre gentile e premuroso con lui» e improvvisamente trasformatosi in un tribuno duro e tagliente. Una doppiezza inaccettabile. «Ho maturato la convinzione che non si potesse andare avanti così». Ho cercato in questi mesi, confessa un amareggiato ma non piegato premier, di non cedere al mio carattere, di essere meno suscettibile, ebbene avrei preferito che staccassero la spina direttamente, con un voto di sfiducia, più leale, non in quel modo. Di ritorno da Cannes, Monti si dirige verso Roma, dove lo attende Napolitano. Ha già deciso di dimettersi, con dignità, quella dignità ferita dalle parole di Alfano e dalle pronunce ripetute a Milanello dal Cavaliere, ridisceso in campo con quella baldanza che molti osservatori esteri non si spiegano o, peggio, non tentano nemmeno di spiegarsi. «Ho preferito farlo subito, a mercati chiusi». Sì, presidente, ma domani riaprono. «Già, riaprono...». Quando arriva al Quirinale, nella serata di ieri, il presidente della Repubblica sa che il finale è già scritto. I due hanno caratteri diversi, qualche contrasto c’è stato, ma la stima e l’amicizia sono profondi. Il capo dello Stato sa che non può fare più nulla. Discutono a lungo della posizione del Pdl e soprattutto della nota di Alfano. Napolitano condivide lo sdegno per le parole del segretario del Pdl, ingiuste nel bilancio di un anno di lavoro del governo tecnico che pure ha avuto alti e bassi, riforme positive e altre meno, ma che ha ridato immagine e rispettabilità al Paese in giro per il mondo. Capisco e condivido, dice in sintesi Napolitano, il senso di dignità personale e istituzionale che ha mosso il premier ad annunciare le proprie dimissioni. Confessa Napolitano di averlo convinto a rimanere per l’approvazione della legge di Stabilità, per la legge di variazione di bilancio, facendo anche ricorso a un parallelo sgradito con il Berlusconi uscente di un anno fa. Il Cavaliere si dimise nel novembre scorso dopo il varo dell’allora più che incerta e sofferta legge di Stabilità. Un paragone che Monti con sense of humour accetta. Entrambi si trovano assolutamente d’accordo nell’evitare al Paese l’onta di un avvilente esercizio provvisorio nella tenuta dei conti pubblici. La discussione tocca anche la ridiscesa in campo di Berlusconi, che il capo dello Stato giudica, nei toni e negli argomenti, esaltata e pericolosa. Anche per lo stesso Cavaliere. Di un egocentrismo patologico. Lo scenario che si apre è, dunque, il seguente. Il giorno dopo l’approvazione della legge di Stabilità, e ci vorranno presumibilmente sei o sette giorni, il presidente della Repubblica scioglierà le Camere. È escluso, anche se Napolitano afferma di prendersi una pausa di riflessione sulle modalità, che il governo venga rimandato alle Camere. Il discorso di Alfano è suonato alle orecchie di Monti come una sfiducia conclamata. Dunque, meglio evitare un nuovo e imbarazzante passaggio formale. Ma la questione resta aperta. Si voterà a questo punto a febbraio. Ciò comporterà, probabilmente, anche le dimissioni anticipate di Napolitano che più volte ha ripetuto di non voler essere lui a conferire l’incarico per la formazione del nuovo governo nella prossima legislatura. Il finale di questa legislatura, che muore nel modo peggiore, è stato ben diverso da quello che il Quirinale si aspettava. Anche Napolitano non si persuade di come sia stato possibile un cambiamento così repentino della scena politica. Anche lui, come Monti, aveva incontrato il «gentile e attento» Alfano e non immaginava una svolta oratoria, alla Brunetta, di tale asprezza. Si aspettava che i moderati e i liberali del centrodestra facessero sentire la propria voce e invece, nelle sue parole, appare forte l’apprensione per la deriva che il Cavaliere ha impresso alla politica italiana. Lo sguardo è su quello che accadrà domani, sui mercati e nelle cancellerie internazionali che torneranno a considerare l’Italia una fonte di contagio, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. Il governo resterà in carica per l’ordinaria amministrazione, ferito a morte, in una campagna elettorale che si annuncia tra le più difficili e tormentate del Dopoguerra. «Dovevano avere il coraggio di staccarmi la spina, sapendo che l’avrei potuta staccare anch’io», ripete Monti in tarda serata, con l’aria sollevata e, conoscendolo, con molta amarezza in corpo. Parla delle numerose pressioni avute, in particolare sui temi della giustizia. E ritiene che fosse indispensabile risparmiare al suo esecutivo lo scomodo ruolo di ostaggio istituzionale. C’è in lui anche una sottile e malcelata voglia di rivincita. Non c’è rassegnazione. E ora, presidente, lei è libero di prendere qualsiasi decisione, anche di candidarsi alle politiche, ormai la necessità di essere super partes è caduta o no? Il silenzio dell’interlocutore è significativo, è chiaro che ora si sente libero di decidere. Ci sta pensando, molti lo spingono a fare un passo. E anche il presidente della Repubblica, crediamo, non lo ritiene più impossibile. In poche ore muore il governo tecnico, il Paese corre alle urne, in un confronto così radicale che schiaccia moderati e liberali che guardano a Monti con rinnovata speranza. Alfano con le sue parole ha fatto cadere un esecutivo ma non ha tolto di mezzo un leader. La pressione dei centristi su Monti si intensificherà. E lui non tornerà di certo alla Bocconi. Il Lohengrin della Scala è finito negli applausi. La tragedia italiana continua. Il libretto è tutto da scrivere, la musica pure, la platea assicurata e mondiale, ma purtroppo assai poco disposta nei confronti degli interpreti. Il sipario non scende mai.