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 2012  dicembre 08 Sabato calendario

«ORA I BOSS RICICLANO TANGENTI»

Da Palermo a Roma, passando per Reggio Ca­labria. Giuseppe Pignatone è da anni in prima linea nella lotta alle mafie. Dal suo ufficio di procuratore capo della capitale, invita a tenere alta la guardia: contro i clan tanto è stato fatto, ma molto re­sta ancora da fare. E soprattutto, sottolinea, ognuno può giocare un ruolo importante.

Fino a pochi anni fa si credeva, o si fingeva di crede­re, che le mafie infestassero solo una parte d’Italia. Ora ci si accorge che il fenomeno riguarda tutto il Paese e inquina economia e politica. È troppo tardi?

In realtà, l’ho constatato di recente in un dibattito al Nord, ci sono ambienti e persone che continuano a negare l’esistenza stessa del problema ’mafie’ fuori dal Meridione. Temo che questo atteggiamento sia frutto della volontà di non affrontare i problemi e le scelte imposte dalla presenza delle mafie. Eppure le indagini degli ultimi anni, e questo credo sia un fatto di eccezionale importanza, hanno dimostrato senza alcun dubbio come le mafie siano presenti e attive anche in zone del Paese che non si credevano inte­ressate al fenomeno. Comunque non è certamente troppo tardi per reagire, nella consapevolezza che le mafie sono un pericolo gravissimo non solo per l’e­conomia ma per la stessa vita democratica.

Lei ha conosciuto da vicino le dinamiche siciliane, poi quelle calabresi. Che scenari ha trovato a Roma?

Roma è naturalmente una realtà molto complessa. Le indagini non possono concentrarsi quasi soltanto sulla criminalità mafiosa come avviene in altre sedi, ma devono estendersi ai temi della corruzione, poli­tica e amministrativa, e della criminalità economica e fiscale, fino a quelli della sicurezza pubblica e della violenza di matrice politica. Una questione fonda­mentale è poi quella dell’aggressione ai patrimoni ac­cumulati illecitamente e reinvestiti a Roma ed in al­tre zone del Lazio. Fra l’altro, vi sono segnali che fan­no ritenere che vi siano rapporti fra questi diversi fe­nomeni criminali.

A cosa si riferisce?

In particolare, è probabile che alcuni dei canali di ri­ciclaggio (intermediari finanziari, professionisti e fac­cendieri) usati dalla criminalità organizzata siano u­sati anche per ’ripulire’ le grandi somme di denaro provenienti dalla corruzione e dalla criminalità eco­nomica. Su questi temi il mio ufficio, che conta su molti magistrati di grande valore e che si avvale di uf­fici di polizia giudiziaria di grande livello, si sta impe­gnando a 360 gradi, senza pregiudizi di alcun tipo ma anche senza pensare che ci siano santuari inviolabi­li. Sul fronte del contrasto alle mafie è poi fonda­mentale avere iniziato una proficua collaborazione con le procure della Repubblica di altre città, a co­minciare da quelle di Milano, con cui vi è ormai un rapporto consolidato, e di Napoli, con il cui procu­ratore, Giovanni Colangelo, si è realizzata una piena intesa.

Che cosa si deve fare per sconfiggere le mafie?

Sappiamo bene quello che dobbiamo fare dal lato della repressione: indagini, arresti, sequestri; sempre, sia chiaro, nell’assoluto rispetto delle regole, con un’a­zione seria e continua e con la consapevolezza che la mafia non è solo intimidazione e violenza. La vera forza della mafia sta nelle relazioni che è riuscita e riesce a tessere con esponenti di tutti i settori della so­cietà. Se così non fosse, le mafie non avrebbero resi­stito per 150 anni e più.

In effetti, già nel 1900 don Sturzo diceva che la ma­fia entra nei corridoi di Montecitorio. E si è visto che le infiltrazioni toccano anche magistratura e forze dell’ordine.

È quello che emerge dalla storia e, per nostra espe­rienza, dalle indagini delle forze di polizia e di tanti uffici giudiziari in tutta Italia: non ci sono categorie sociali di per sé immuni dal rischio di ’contagio’ del virus mafioso, così come non ci sono categorie di per sé necessariamente condannate a restare prigionie­re della criminalità. Anzi, le indagini hanno dimo­strato che professionisti, politici, burocrati e spesso anche imprenditori stringono accordi con le mafie per convenienza: contano di guadagnare con l’ap­poggio dei mafiosi denaro, voti, progressi di carrie­ra, potere. A volte questo calcolo ha successo, altre vol­te no: perché arriva la giustizia penale o perché il ma­fioso pian piano esige sempre di più e chi ha stretto patti con lui si ritrova di fatto suo prigioniero e perde i suoi beni, l’impresa, la reputazione e, quel che è peggio, la sua stessa libertà.

C’è anche chi sa dire no ai clan.

L’esperienza in una realtà difficile come quella calabrese ha dimostrato che ragazzi figli di persone condannate all’erga­stolo per reati di mafia sono stati capaci, senza rinnegare i lo­ro padri, di maturare una propria scelta di vita basata su va­lori completamente diversi.

È la prova che la società civile può reagire. L’antidoto può ar­rivare anche da movimenti di legalità come, per esempio, Li­bera e Progetto San Francesco?

Sappiamo bene che la repressione non basta per affermare la legalità. La legalità è il frutto del modo di pensare e delle scel­te concrete di ognuno di noi e della società nel suo insieme. Ogni nostro comportamento, ogni scelta politica, ogni fatto può influire sul livello di legalità. Naturalmente, quando le scelte positive maturano non a livello individuale, ma a livel­lo di associazioni come quelle citate, è possibile conseguire risultati molto più significativi. In questo senso è fondamen­tale far capire che chi accetta di avere rapporti con i mafiosi è isolato nel suo stesso ambiente sociale, che la sua scelta non paga, indipendentemente dall’esito del processo penale.

Per chi è cristiano, la lotta contro i clan è anche una lotta contro il male.

I vescovi italiani hanno più volte sottolineato il pericolo co­stituito dalla mafia definita una ’struttura di peccato’ e un ’cancro’ della nostra società. Tutti ricordiamo le parole di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento, nel 1993 (il Papa citò il quinto comandamento e disse ai mafiosi: ’Ba­sta con la civiltà della morte. Convertitevi’, ndr). Ma io ricor­do anche le parole di un vescovo siciliano, monsignor Catal­do Naro, che affermava che ’il contributo più vero ed effica­ce che la Chiesa può dare alla lotta alla mafia e più in genera­le a creare una società più giusta’ è che i cristiani ’si impe­gnino a vivere nella santità’ nella loro vita ordinaria.

Insieme al suo collega e amico Michele Prestipino, lei ha scritto un libro sulla ’ndrangheta intitolato non a caso ’Il contagio’. Il volume si conclude con le parole di padre Pino Puglisi, martire di mafia.

Sì, sono parole che richiamano ognuno alle sue responsa­bilità e però aperte alla speranza: «Se ognuno facesse qual­cosa, se ognuno si mettesse in gioco, se ognuno rifiutasse di farsi spettatore in un mondo che sta morendo, tutto sarebbe diverso».