Natalia Aspesi, la Repubblica 8/12/2012, 8 dicembre 2012
GRANDIOSA
apoteosi finale dell’inaugurazione della stagione scaligera, un successo appassionato, fiori sui cantanti veramente meravigliosi, applausi senza fine per loro e per il direttore Barenboim, applausi e qualche “buh” per il regista Guth e i suoi collaboratori, del resto genialissimi.
POI patriottica sorpresa per il premier Monti che l’ha un po’ sollevato dall’umore rassegnato al peggio e per tutto l’inclito pubblico in cauto lusso: l’inno nazionale, tradizionale inizio della serata, era saltato, con corrucciata ambascia di molti che immaginavano addirittura una presa di potere di leghisti o grillini. Invece l’inno di Mameli è stato spostato alla fine, per chiudere trionfalmente la lunga serata (Wagner si sa, 4 ore e 50 minuti) in più con l’inusitata partecipazione del meraviglioso coro del teatro.
Eppure all’inizio si era temuta una notte di tregenda, quasi nibelunga, un’inaugurazione della Scala funestata da maledizioni verdiane e da eventi molto menagramo, prima di tutto le ferali notizie che venivano da Roma, dove essendo da ieri il premier impegnato ad affrontare il sinistro agguato del suo inquietante predecessore,
poteva anche disertare l’evento, assieme ai ministri, sia pure tecnici. Invece, cinque, sui sei attesi, eccoli fendere le muraglie di polizia e cineoperatori, nel turbinio di neve e di qualche tradizionale striscione di protesta: Giarda, Ornaghi, Grilli, Terzi, anche quell’attraente Passera (con bellissima signora) che dicendo l’altro ieri un’ovvietà, «se si torna indietro non è un bene per l’Italia », aveva fatto infuriare i berluschisti della Camera. Sola assente tra chi aveva confermato la presenza, la ministra Cancellieri, impegnata a Scampia per gli ultimi tragici eventi. E alla fine è arrivato col suo eterno sorriso benedicente
e respingente, anche Mario Monti, un vero figurino nello smoking da gran signore, assieme all’elegante moglie Elsa: neppure il crudele Telramund che dal palcoscenico poco dopo avrebbe cercato di far fuori l’innocente Elsa, avrebbe potuto strappargli una frase criptica tipo Zoroastro, «Il Re Sole si è allontanato da me». Urgono interpretazioni di guru politici. Ma i casini per questo affascinante Lohengrin non erano finiti: la prima Elsa si era ammalata qualche giorno fa, sostituita per la
serata giovani da una seconda Elsa, che poi era rimasta senza voce: come in un finale da film anni 40, furibonde telefonate in tutto il mondo per trovare una terza Elsa in salute, sono approdate ad Annette Dasch, soprano tedesca bella e giovane, già Elsa a Bayreuth nel 2010: e la signora, che il sovrintendente Lissner ha definito «coraggiosa come sanno esserlo solo le donne», è arrivata nella notte, ha cominciato a provare alle 8 di mattina col direttore d’orchestra Barenboim e il regista Claus Guth, alle
5 del pomeriggio, brava anche secondo i diffidenti wagneriani, era pronta ad affrontare un pubblico melopresenzialista, già in gran confusione per l’arrivo sulla scena, tra uomini in marsina e gibus, al cospetto di un re di Germania (il basso René Pape) in divisa da Francesco Giuseppe, di un Lohengrin che anziché assomigliare a quello con elmo e armatura delle figurine Liebig, da sempre il preferito, si presentava come un gran bel giovanotto ricciolone (il celebre tenore tedesco Jonas
Kaufmann) in gilet stile Prada e scalzo, eroe per caso, in apparenza inservibile come difensore dell’innocente Elsa, in quanto angosciato come la famosa Sabina Spilrein, ai suoi tempi in cura anche
sadomaso dallo psicanalista Ernst Jung.
Naturalmente con gran dispetto dei tradizionalisti che pur che appaia il cigno che trasporta Lohengrin, gli va bene anche piombato malamente dal cielo o cigolante su rotaie, Guth faceva apparire ogni tanto un ragazzo con una sola ala bianca, e anche pioggia di piume qua e là. In più la scelta spettacolare di ambientare la fiaba di origine francese, anziché in quel mitico mondo nordico cui Wagner era già affezionato, nei
tempi stessi del compositore, cioè a metà Ottocento: il che ha consentito le spettacolari crinoline, nera per la velenosa e poi perdente Ortrud (il soprano Evelyn Herlitzius) molto simile anche nella pettinatura all’antipatica Cosima anni dopo seconda moglie di Wagner, bianca per la verginale e perseguitata Elsa, come fosse la cinematografica Sissi. La cattiva, per convincere lo sposo Telramund (il baritono Tomas Tomasson) a non darsi vinto dopo che Lohengrin lo ha sconfitto in duello, detto qui
Giudizio di Dio, si spoglia e lo spoglia apprestandosi a un congiungimento carnale senza togliersi gli stivali. Nelle meraviglie musicali wagneriane i due sposi Elsa e Lohengrin evitano il sopraddetto, continuando a dichiararsi amore supremo e torcersi per terra ognuno per conto suo, se non come indemoniati, certo come freudianamente
disturbati.
Come quasi sempre, meraviglie per direttore d’orchestra e cantanti, scuotimenti di testa per regia, scene e costumi, che invece,
secondo alcuni modernisti, sono riusciti a trasformare una storia del tutto insensata, diventata grandiosamente pazza col libretto scritto da Wagner e grandiosamente sublime nella sua musica, in uno spettacolo che consente diverse interpretazioni e che scatena un’inquietudine al di là del potere dell’opera. Infatti: forse il Lohengrin depresso e contorto di Guth è in qualche modo Wagner stesso, che forse perché oberato in quel 1848 dalle corna della prima moglie, e l’anno dopo inseguito da
un mandato di cattura come rivoluzionario, depresso lo era alquanto. E invece c’è chi vede in quell’eroe fragile e irrisolto, che come capita spesso, fugge da una donna pia ma appiccicosa, il fantasma di re Ludwig II, che ai tempi della stesura del Lohengrin aveva 3 anni, a 13 imparò a memoria il testo e a 16 ebbe dal padre il permesso di assistere a una sua rappresentazione. Fragile di testa, non solo si circondò di cigni veri o finti e si travestì da cigno per i suoi incontri con atletici stallieri e servitori, ma fu sul punto di far fallire il regno coprendo di denaro l’esigente e spendaccione Wagner.