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 2012  dicembre 08 Sabato calendario

TARANTO

IL MODO in cui si lavora, ci si ammala, ci si fa male dentro la fabbrica era ed è l’anello più importante e più mancato di congiunzione fra lavoratori dell’Ilva e cittadini.
Parla il direttore del siderurgico. A me stanno a cuore i lavoratori.
Il direttore, ingegner Adolfo Buffo, aveva protestato con veemenza contro un mio articolo. Era offeso in particolare da una frase che avevo raccolto. Su questo punto aveva ragione, e io ho avuto torto. Secondo chi me ne aveva riferito, nella circostanza dolorosa dello sbarco del corpo di Francesco Zaccaria, Buffo aveva assicurato che una promozione e del denaro avrebbero fatto tornare i gruisti al lavoro.
«Quella frase è agli antipodi della mia intera esistenza. Quel giorno poi, e in quel luogo! Aspettavamo un ragazzo che è morto. Ho due figli di quell’età. La lotta di classe l’ho fatta dalla parte del lavoro. Il rischio si paga, ma non così. Lavoro qui da 25 anni. Da 6 anni curo la sicurezza. Abbiamo ridotto gli infortuni del 60 per cento, cifra certificata dall’Inail. L’indice sulle ore lavorate è sceso da 86 a 33. Anche sugli appalti, la cenerentola. Nel 2011 abbiamo tenuto 17.153 riunioni di sicurezza. Abbiamo un’infermeria che vale un ospedale, una caserma di 40 vigili del fuoco. Dedichiamo alla formazione 300 mila ore, il 53 per cento alla sicurezza. Lavoriamo con la francese DuPont alla formazione comportamentale. Se un lavoratore non vuole mettersi il casco sulla testa, bisogna fargli entrare in testa
che sbaglia. L’età media è di 37 anni, ma 3-4 mila operai ne hanno meno di 20! La sicurezza è una conquista culturale.
«Al Movimento Ferroviario, dove un mese fa è morto un altro operaio di 29 anni, è falso che si siano assegnate alcune operazioni a un lavoratore solo, per risparmiare: che risparmio vuole che diano, su 12 mila persone, poche decine di addetti in meno? Al contrario, la scelta di ridurre certe manovre a uno solo mirava alla sicurezza. C’erano stati 9 incidenti mortali, dovuti a incomprensioni nella cooperazione fra gli operai. Dopo non ce ne sono stati, per 17 anni. Si è investito negli scambi automatici, nel controllo satellitare del tragitto, nel radiocomando. Mi chiede che cosa è successo a Marsella: i giudici indagano, io sono indagato. Lei dice che il problema non è solo l’incidente, ma il ritardo nel soccorso quando non c’è un compagno che dia l’allarme.
Abbiamo i documenti: dal contatto radio sono passati 7 minuti, e una decina per l’ambulanza. L’inchiesta appurerà se era già morto o ancora vivo. Non è vero che l’assegnazione di quella mansione a una sola unità derivi dall’accordo del 2010, e che la contropartita sia stata l’una
tantumdi
450 euro.
«Mi chiede che cosa facevano lassù i quattro gruisti alle 10.46 del 28 novembre. Intanto le dico che la gru di Francesco era stata controllata dall’Arpa (l’Agenzia per la prevenzione e la protezione dell’ambiente), che non è benevola nei nostri confronti, il 17 luglio 2012. Perché erano su? Ci sono gli anemometri, regolati sulle norme della Capitaneria di Porto, a 72 km orari bloccano la macchina e la cabina dev’essere evacuata. Quella mattina, prima della tromba d’aria, il limite non era stato toccato. La Protezione Civile non ha diramato alcun allarme. E la Capitaneria
non ha avuto nemmeno il tempo di allarmare le navi. Lei dice che nessun gruista ha avuto una formazione che non si riducesse all’affiancamento a un compagno esperto. Ci sono le schede personali. A ognuno è associato un programma di formazione e un consuntivo delle qualifiche attraverso cui è passato: me compreso. Mi chiede se io creda che i gruisti non vogliano risalire sulle macchine solo per lo shock psicologico che hanno subito, e non anche per sfiducia nella sicurezza. Le rispondo: sì, per il trauma psicologico. Noi abbiamo un bisogno vitale di quella lavorazione, ma comprendo la paura suscitata dalla morte di un compagno in un evento simile. Ho visto anch’io la tromba d’aria nascere e distruggere. E poi il dolore dell’attesa sul mare in tempesta. Io ho ordinato — uso questo verbo, posso farlo — di rispettare questo stato d’animo. Sarei un pazzo se volessi farli risalire in condi-
zioni di insicurezza».
Parlano gli operai. Che cosa è successo il 30 ottobre al movimento ferroviario dell’Ilva?
«Siamo un’ottantina, sotto i trent’anni. Un accordo nel 2010 dispose che in certe manovre restasse un solo operatore — prima erano tre, poi, coi radiotelefoni, due. Alla fine prendere o lasciare, “c’è una ditta pronta a sostituirvi”. Il nostro delegato, Eligio, scrisse: “È indiscussa la ferma volontà dei lavoratori di non accettare nessuna ipotesi che preveda l’armamento a un operatore dei locomotori, per la sicurezza”. Eligio poi non fu rieletto… Sulla monetizzazione, leggi il verbale: “Le parti convengono la somma di euro 450 lorde, quale una tantum strettamente legata alla realizzazione della nuova organizzazione del lavoro”!
«Il radiotelefono a volte non funziona, o ha interferenze. C’è ancora un km senza luce, una discesa stretta, a binario unico, il soccorso impossibile. Ci lamentavamo, prima o poi succede qualcosa. Il 30 ottobre è morto Claudio, schiacciato. Ha dato l’ok per radio, poi non si è sentito più niente. Non c’è stato un vero allarme, hanno mandato a vedere uno che lavora vicino. Dicono che in 18 minuti si è completato il soccorso: ma prima ne erano passati 50. Era solo, nessuno sa com’è andata. Da un mese ci tormentiamo e non lo sapremo mai. L’unica prevenzione è il secondo operatore. Se sei solo, qualunque incidente diventa micidiale: scivoli dalla scaletta e puoi finire sotto, se uno non frena. Dici: la scaletta era umida, ti dicono: è la tua negligenza, dovevi stare attento. Al soccorso di Claudio hanno ripulito e tolto il tacco che ferma i carri, perché a volte si sfrenano.
Quando hanno avvisato che era morto siamo corsi all’ospedale. Bisognava fare un esposto, avevamo paura, poi uno ha detto: Vado io.
Abbiamo scioperato per 15 giorni.
Abbiamo chiesto il ritorno a due persone sui locomotori. Nessuna risposta. Siamo stati presi alla sprovvista, noi e i padroni, perché non era mai successo. Il 12 arriva la busta paga: sarà un Natale povero ».
Parlano gli operai. Che cosa è successo mercoledì scorso agli impianti marittimi dell’Ilva?
Che cosa facevano nelle cabine delle gru i quattro operai durante il tornado? Francesco Zaccaria, 29 anni, morto. Era salito sul DM5, al 4° Sporgente (un molo, in pratica) alle 7 meno dieci. Doveva liberare una benna “affossata”. In realtà non lavorava, per il maltempo. È rimasto senza lavorare fino alle 10,46 a 30 metri da terra. C’era il temporale. Secondo l’Ispra «il livello del mare ha subito una variazione istantanea, aumentando di 30 centimetri tra le 9,45 e le 10,00, al passaggio del tornado». Alle 10.46 è arrivato il tornado, il vento oltre i 200 km, la cabina divelta e scaraventata in mare col corpo. Vincenzo Morrone era sulla cabina del DM6, anche lui fermo al 4° Sporgente. Il tempo era troppo minaccioso ed è uscito dalla cabina. Il vento non gli permetteva di scendere, ha cercato di rientrare. Per sua fortuna non ce l’ha fatta, la cabina gli è volata via sotto i piedi ed è ricaduta sulla coperta della nave. Lui è restato aggrappato all’impalcatura, fino a che l’hanno soccorso. Simone Piergianni era nella cabina del DM8, con Francesco Sasso. Aspettavano che il DM5 liberasse la benna “affossata”. Simone ha una vertebra incrinata, Francesco tre costole fratturate. Al DM8 c’era quel problema della benna affossata nella stiva: il minerale la sommerge e la blocca con il peso. La tromba d’aria sbatteva avanti e indietro la macchina e faceva ballare la nave: la cabina è rimasta incastrata, se no
sarebbe finita in mare anche questa.
Ecco che cosa facevano i quattro operai alle 10,46: niente! Stare in quei cubicoli è scomodissimo: perché tenerli dentro anche senza lavorare? All’Ilva era così. Non più ora che tua moglie non ti lascia uscire di casa se non giuri di non salirci più. Perché non sono scesi per proprio conto? «Ti addebitano l’abbandono del posto di lavoro ». L’anemometro è un display nella cabina, quando si supera la forza del vento sei tu che devi resettarlo e da fuori ti incalzano: «Riprova, riprova! ». Quando il vento è forte, non puoi nemmeno
affacciarti per pisciare. Il nuovo capoarea almeno usa un altro linguaggio. «Trovate voi un’alternativa, i custodi hanno ridotto al minimo le riserve, abbiamo bisogno di scaricare». Ha ventilato l’impiego del radiocomando, magari al DM6. Col radiocomando il gruista sta sulla mastra della stiva, il bordo. Forse è più pericoloso.
Che cosa non va sulle gru? Quasi tutto. C’è una cosa che va: il gruista. Stai chinato sulle ginocchia, per guardare giù, sottoposto a vibrazioni da martello pneumatico. Respiri la polvere anche con le orecchie. Quando c’è tramontana il fumo delle ciminiere delle navi ti viene proprio in faccia.
Io, lo scrivente, ho registrato le parole tecniche anche dove non capivo. Ma forse avete letto il libro di Primo Levi, “La chiave a stella”, un dialogo fra lui e Libertino Faussone, montatore di gru. Un elogio del lavoro fatto bene, quando si permette al lavoro di essere fatto bene, e di arricchire chi lo fa.