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 2012  dicembre 08 Sabato calendario

«Nella vita, a un certo punto, bisogna saper prendere la via pericolosa, la scorciatoia piena d’incognite; finché si cammina sulla strada segnata, si sa dove si arriva, ma non si arriva mai più in là»

«Nella vita, a un certo punto, bisogna saper prendere la via pericolosa, la scorciatoia piena d’incognite; finché si cammina sulla strada segnata, si sa dove si arriva, ma non si arriva mai più in là». Ecco, leggendo Giorgio Scerbanenco si arriva sempre, o quasi, «più in là». Negli anni, lo scrittore che un po’ sbrigativamente veniva racchiuso nel refrain «padre del noir italiano» — che pure lo definisce con una certa esattezza — mostra tutte le sfaccettature. Come gli scrittori del grande Ottocento (Maupassant su tutti, per restare alla Francia), Scerbanenco era attaccato alla penna — alla macchina per scrivere — mosso da felici e inesauribili spiriti creativi ma, soprattutto, dalla necessità di consegnare righe, stampare, e finalmente mettersi in tasca dei soldi. Ha scritto tantissimo, non come Simenon, ma come un fiume in piena sì. Ed è stato letto tantissimo, divorato dal pubblico curioso delle sue storie, di quelle taciturne malinconie, degli intrecci rosa o gialli o neri nei quali si capiva che a contare non era la trama, ma il tratteggio dei caratteri, l’intuizione psicologica, la riflessione che dava un brivido, un senso alla pagina. Scerbanenco, il milanese, il russo ucraino (era nato a Kiev, con la «k» nel cognome, nel 1911 e venne spedito in Italia dopo la rivoluzione bolscevica: la sua nuova patria diventò Milano, dove morì nel 1969); Scerbanenco il creatore degli investigatori Arthur Jelling, archivista di Boston, e Duca Lamberti, medico radiato dall’ordine; il giornalista della «posta del cuore», e che finezza e profondità di risposte; il direttore del femminile «Bella»; il collaboratore del «Corriere della Sera». Banale dire che la miniera di questo poligrafo mai sazio è ricca, ma è proprio così (e nella miniera scavano Cecilia e Germana, le figlie che lo scrittore ebbe da Nunzia Monanni, sua amatissima donna, che fino all’ultimo giorno di vita — è scomparsa nel 2009 — si dedicò con assoluta devozione a valorizzare l’opera del marito). Ricco e sorprendente, il giacimento, perché non si incappa in alcuna pagina in uno Scerbanenco minore, sapendo egli tenere sempre alto il livello di testi spesso, se non sempre, nati da improvvise occasioni commerciali. Un vero scrittore non tradisce mai se stesso, approfitta della cornice di un genere per far filtrare un’idea di mondo, non solo per intrattenere occhi che leggono. Immaginiamo con quanta attenzione, come sottoposto a un esame, Scerbanenco affrontasse i racconti e i romanzi destinati a uscire a puntate nell’edizione pomeridiana del «Corriere», nell’arco di tempo 1941-1943. Ora questi testi sono in due tomi editi dalla Fondazione Corriere della Sera: trentotto racconti (più uno, Lingua morta, non pubblicato dal quotidiano) e due romanzi. L’introduzione di Cesare Fiumi ben inquadra il contesto in cui nacquero, e il carteggio tra Scerbanenco e l’allora direttore del quotidiano, Aldo Borelli, ci fa assistere al gioco di fioretto tra due protagonisti della scena giornalistico-letteraria dell’epoca: tempo di fascismo e guerra, con censure e prudenze. Ma non è soltanto questo: il puntiglio del direttore Borelli nel rispedire righe al mittente («ahimè, mi avete mandato due novelle troppo tirate via») o notare incongruenze in una trama dove si muore per un osso di pollo (Borelli suggerisce, anzi ordina, un fungo velenoso) restituisce a noi «spioni» di oggi il sapore vero di un incontro. Scerbanenco, intimidito dal direttore, gli scrive sempre intestando «Gr. Uff. Aldo Borelli», quasi fosse un Fantozzi ante litteram, ma sappiamo bene che la danza di cortesia nei carteggi prevedeva, appunto, simili «inchini». Naturalmente, Borelli rispondeva alle missive con un diretto e forse affettuoso «caro Scerbanenco», e non faceva sconti su imprecisioni e incertezze. Racconti e romanzi, passati sotto le forche caudine di Borelli, sono ancora godibilissimi, freschi, se l’aggettivo non stonasse con le atmosfere non certo squillanti di Scerbanenco. «La vita color tortora», scrissero i critici trattando di Cechov e dei suoi personaggi immersi nell’ingranaggio di un mondo implacabile, intrisi dei dolori umani, figure grigie ritagliate in una sfumata grandezza. E «Cechov dei Navigli» venne chiamato Scerbanenco, quasi le sue origini ne determinassero lo sguardo. Operai, impiegati, portinaie, giovani mamme, caporali, ciclisti. Come il piccolo gruppo di perdigiorno (alla von Eichendorff, forse) che nel romanzo Cinque in bicicletta pedala sulle ali della libertà fino a Verona, da una brulicante Milano che è «un disordinato corteo, uno sciamare rapido e sbandato: tutta gente che si recava alle fabbriche lontane» (e negli occhi arrivano i dipinti di Sironi...). Fiumi, nell’introduzione, scomoda con un pizzico di azzardo il Jack Kerouac di Sulla strada, scritto nel 1951, di cui Scerbanenco sarebbe una sorta di anticipatore. In certi racconti, invece, il tono «gotico» rimanda a Edgar Allan Poe (è sempre l’analisi di Fiumi). Il «padre del noir italiano» sapeva toccare tutte le corde, guizzando nei generi. Speriamo serva apparentare Scerbanenco a maestri precedenti o successivi: è benvenuta una lettura critica che aiuti a mettere il nostro autore negli scaffali più nobili della letteratura. RIPRODUZIONE RISERVATA Il libro di Giorgio Scerbanenco, «Racconti e romanzi per il "Corriere" 1941-1943», con introduzione di Cesare Fiumi, Fondazione Corriere della Sera, pagine 790 in due volumi indivisibili, 25