Pietro Citati, Corriere della Sera 8/12/2012, 8 dicembre 2012
Bonaventura nacque a Civita di Bagnoregio, vicino a Viterbo, nel 1217: qualche anno prima di Tommaso d’Aquino, al quale la sua esistenza fu stranamente legata
Bonaventura nacque a Civita di Bagnoregio, vicino a Viterbo, nel 1217: qualche anno prima di Tommaso d’Aquino, al quale la sua esistenza fu stranamente legata. Studiò e insegnò all’Università di Parigi, dove pareva che si fosse trasferita tutta la grande cultura europea. Non fu un mistico, come Francesco; e nemmeno un filosofo — razza che egli esecrava. Fu un grande teologo della mistica, come Riccardo di San Vittore. Aveva una mente robusta ed armoniosa ed insieme meticolosissima: scriveva in un latino sonoro, che in parte aveva adattato dal greco sontuoso di Dionigi Pseudo-Areopagita. Ma la sua attività di professore si scontrò con la sua vocazione di frate francescano; e nel 1257 lasciò l’Università, dove si svolgevano feroci polemiche tra professori di inclinazioni religiose e culturali diverse. Nello stesso anno, venne eletto ministro generale dell’Ordine dei Frati minori. Rimase ministro per diciassette, difficilissimi anni: fino quasi alla morte, che lo colse pochi mesi dopo Tommaso d’Aquino. Come ministro generale, ebbe grandi doti di guida e di organizzatore: tanto da essere chiamato, forse impropriamente, secondo fondatore dell’Ordine. Aveva una mente cauta e prudente. Devotissimo al ricordo di Francesco, lo vide come un nuovo Giovanni Battista, che profetizzava e precedeva la seconda venuta di Cristo. Ma l’Ordine era diviso dai contrasti: da un lato, si difendeva la tradizione di Francesco e Bonaventura, e l’alleanza colla Chiesa; dall’altro, si immaginava una clamorosa utopia. Bonaventura rimase coinvolto in queste tensioni: Ubertino da Casale e Angelo Clareno lo accusarono di tradire la figura di Francesco. Nell’aprile 1257, inviò una epistola durissima a tutti i ministri e ai custodi dell’Ordine. Denunciava come lo splendore dell’Ordine si fosse offuscato: era stato corrotto dall’esterno, mentre nell’interno si oscurava «lo scintillio delle coscienze». Il bel libro pubblicato dalla Fondazione Lorenzo Valla sotto il titolo La perfezione cristiana (Mondadori) è il terzo volume della Letteratura francescana, diretta da Claudio Leonardi. Comprende il testo più famoso di Bonaventura, l’Itinerario della mente in Dio, la Vita mistica e alcuni sermoni. L’anno prossimo uscirà il quarto volume: la vita, anzi la Legenda di san Francesco, scritta tra il 1260 e il 1263, in seguito a un incarico da parte del capitolo generale dei Frati minori. La Legenda maior diventò la vita ufficiale di san Francesco, sebbene quella, più antica, di Tommaso da Celano brilli di una luce più drammatica e violenta. Bonaventura volle indicare ai cristiani la possibilità, aperta a tutti, di diventare santi, come era stato, in modo sublime, Francesco. Bonaventura scrisse molto. Tra il 1254 e il 1255, l’Epistula de tribus quaestionibus, che affronta i temi della povertà, del lavoro manuale e degli studi dei frati: nel 1256, le Quaestiones de perfectione evangelica, dedicate all’umiltà, alla povertà, alla castità e all’obbedienza. Subito dopo, due trattati: il Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo e il Breviloquium de intelligentia Scripturae et fidei christianae — un piccolo capolavoro. Nel 1269, in polemica con Gerardo d’Abbevilla, compose l’Apologia pauperum. Agli ultimi anni appartengono tre serie di conferenze tenute a Parigi: le Collationes de decem praeceptis, le Collationes de septem donis Spiritus Sancti, le Collationes in Hexaëmeron, che furono interrotte dalla sua nomina a cardinale. In queste importantissime conferenze, da un lato Bonaventura polemizzò contro la filosofia aristotelica, che Averroè aveva introdotto nella cultura cristiana: dall’altro, forse sotto l’influenza di Gioacchino da Fiore, affrescò il grande tema del «rinnovamento della Chiesa», che sarebbe fiorito nel prossimo futuro. San Francesco era già il segno degli «ultimi tempi». * * * Nel 1259, 33 anni dopo la morte di Francesco, Bonaventura si rifugiò sul monte della Verna, «un luogo di quiete dove desiderava cercare la pace del Signore». Lì meditò le esperienze dello Pseudo-Dionigi; e gli si presentò alla memoria il miracolo manifestato a Francesco lì sulla Verna, quando vide il serafino con sei ali in forma di crocifisso, che gli impresse le stimmate, rendendo visibile sul suo corpo la passione di Cristo. Quella visione, che aveva affascinato e sconvolto tutto l’Ordine francescano, fu il modello nascosto del suo capolavoro, l’Itinerario della mente in Dio. Non rappresentò una singola, grandiosa visione. Ma un itinerario — una scala, come dicevano i mistici bizantini — di gradini successivi, che doveva rappresentare l’ascesa dell’anima dal mondo sino a quel punto inconoscibile e incomprensibile che è Dio. Aveva una profonda fiducia che tutti gli uomini potessero ripetere questa strada: purché praticassero insieme il furore della preghiera e il puro bagliore della speculazione. La mente di Bonaventura non aveva nulla di ascetico. Mirabile, nella prima parte dell’Itinerario, è la contemplazione del mondo che noi abitiamo. Ecco il primo gradino della grande scala: tutte le cose dell’universo, alcune corporee, altre spirituali, altre eterne; alcune fuori di noi, altre dentro di noi. Il regno di Dio si espande. «La grandezza delle cose, considerata la mole della loro lunghezza, larghezza e profondità e l’eccellenza della loro capacità di estendersi in lungo, in largo e in profondo, come si diffonde la luce; e considerata l’efficacia della loro azione profonda, continua e diffusa, come agisce il fuoco, indica chiaramente l’immensità della potenza, della sapienza e della bontà del Dio trino, che si trova in ogni cosa senza esserne circoscritto». Ecco la molteplicità, la varietà, l’ordine, la bellezza delle cose: ecco la simmetria e la proporzione; la percezione e il piacere. Ecco il continuo passaggio tra il microcosmo e il macrocosmo, e il macrocosmo e il microcosmo. Ecco le incessanti mediazioni. Bonaventura non si contiene. La sua esaltazione per il cosmo e Dio che crea il cosmo si rinnova di frase in frase. Con che entusiasmo parla della bellezza della vista, della dolcezza dell’olfatto e dell’udito, della salubrità del gusto e del tatto. «Chi non si illumina davanti allo splendore delle creature è cieco; chi non si sveglia alle grida del creato è sordo; chi non loda Dio per tutti questi fatti è muto; chi non riconosce il primo principio da tutti questi fatti è stolto. Apri gli occhi, porgi le orecchie dell’anima, sciogli le tue labbra e disponi il tuo cuore…». Tutte le creature di questo mondo sensibile sono le ombre, le risonanze, le immagini, le impronte, le figure, i riflessi del Dio sovrano. «Esse sono i segni che Dio ci ha dato». E dalle cose sensibili, che noi possiamo vedere, dobbiamo passare a quelle intelligibili, che non possiamo vedere. Bonaventura non ha dubbi. Possiede la tenacissima convinzione che le realtà invisibili di Dio possano essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute. Coloro che non vogliono capirlo, coloro che non vogliono conoscere, benedire ed amare Dio nelle sue creature, sono inescusabili, come dice la prima lettera di Pietro. Così scendiamo in noi stessi, cercando i riflessi di Dio, inseguendoli attraverso un’immagine, cioè — diceva san Paolo — «come in uno specchio, in maniera confusa». Nulla è più difficile di conoscere specularmente Dio in noi stessi: per la semplice ragione che noi non ci conosciamo. Solo Cristo può permetterci di penetrare profondamente nella nostra anima: «Io sono la porta: se uno entra, attraverso di me sarà salvo; entrerà e uscirà, e troverà pascolo». Dio sta al di sopra: meravigliosamente, inesorabilmente al di sopra. I riflessi e le ombre e le impronte non gli bastano; e non ci bastano. Conosciamo soltanto il suo nome: Colui che è. Per il resto è ineffabile e incomprensibile. Rivolgiamo gli sguardi verso la luce, e abbiamo l’impressione di non vedere nulla; e non comprendiamo che proprio questa oscurità è la luce più grande che la nostra mente possa conoscere. Dio è purissimo, assolutamente primo, ignora il non-essere, non ha nulla di diverso da sé, è completamente Uno. L’ultimo gradino che raggiungiamo nell’Itinerario «è uno stato mistico e del tutto segreto, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve, e nessuno lo riceve all’infuori di chi lo desidera, e nessuno lo desidera all’infuori di chi è incendiato nel profondo del cuore dal fuoco dello Spirito Santo, che Cristo ha mandato sulla terra».