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 2012  dicembre 07 Venerdì calendario

VIAGGIO AL TERMINE DELLA DESTRA


Forse, come diceva Giulio Andreotti, il potere logora chi non ce l’ha. Ma la brama di potere e l’occasione di arraffarne un po’ senza troppa fatica possono comunque fare brutti scherzi. Come al povero Gollum, l’hobbit del Signore degli Anelli ossessionato dall’Anello forgiato da Sauron, l’oscuro signore di Morder, e dai suoi poteri e che a causa di questa sua ossessione si perde nella follia. Non vorremmo sembrare troppo severi, ma nell’universo creato da Silvio Berlusconi si possono i scorgere vari piccoli Gollum, non così malvagi e non così tanto trasfigurati dalla bramosia, ma per certo attaccati a quell’Anello luccicante insperatamente trovato lungo la loro strada - il líder máximo Berlusconi - in grado, se servitori fedeli, di regalare loro quel potere che mai, con le loro forze, avrebbero potuto sperare di raggiungere.
Il potere di Berlusconi era quello di creare consenso, quindi voti, quindi maggioranze parlamentari. L’imprenditore immobiliare e poi padre della televisione commerciale e presidente del Milan aveva intercettato i bisogni di una classe media che aspirava alla mobilità sociale, al possesso di quelle piccole grandi cose che rendono più piacevole la vita, una casa gradevole, risorse per divertirsi nel tempo libero, un futuro migliore per i propri figli. Aveva compreso che tanti italiani percepivano ormai il ceto politico e lo Stato - nella forma che aveva assunto in Italia, iperburocratico, invadente, incapace - come degli ostacoli alla loro aspirazione di costruire una vita più soddisfacente. Berlusconi parlava al quotidiano delle persone e la sua promessa fu quella di una liberazione dal peso soffocante di una politica e uno Stato corrotti e inetti, per consentire ai cittadini di essere più liberi di perseguire la loro personale strada per il benessere e la felicità, qui e ora. Dall’altra parte, intanto, la sinistra - sulla quale era rovinato il Muro di Berlino - arrancava alla ricerca di una propria identità (e, sia detto per inciso, in vent’anni non ha fatto molta strada) e ancora prigioniera di un pensiero ideologico, guardava con aristocratico disprezzo alla "pancia" del Paese e ai suoi desideri, all’esplosione della tv commerciale e alle nuove forme di personalizzazione e spettacolarizzazione della politica. Anche se fu proprio questo aspetto a rendere così potente e dirompente l’eclissi della classe politica della Prima Repubblica, Mani Pulite (chi non ricorda la bavetta all’angolo della bocca di un Arnaldo Forlani interrogato dai pm?), e l’allora Pds, miracolosamente scampato, contò proprio su quella disintegrazione per accedere finalmente al potere. Ma non fu così, grazie al colpo di scena del nuovo leader Berlusconi, che seppe inventarsi un partito, una coalizione a geometria variabile e soprattutto, a differenza dei suoi avversari, aveva compreso che cosa chiedeva all’epoca una buona fetta di italiani. Poi certo, c’erano le televisioni, Fininvest, Publitalia, il potere economico, ma non vogliamo pensare che ancora ci sia chi crede che la differenza stesse tutta lì. E così arrivò la promessa di una rivoluzione liberale. Sono passati diciotto anni, quella rivoluzione la stiamo ancora aspettando e, come sino alla vigilia della «discesa in campo», il voto della destra moderata non ha più alcuna seria proposta politica verso la quale volgersi. In realtà, nella Prima Repubblica la destra come spazio politico non era mai esistita, o per meglio dire, era irrisoria sul piano elettorale, emarginata e marginale. Esisteva il centro, che nella storia repubblicana era divenuto progressivamente centrosinistra. E in tutto questo i liberali, di un liberalismo molto conservatore ed elitario, avevano rappresentato una realtà di scarsa rilevanza, partner minori di coalizioni a guida democristiana in un sistema dominato dai due grandi partiti-chiesa. Prima del Big Bang del 1994, per parlare di una destra di Governo era necessario correre molto indietro, alla Destra storica. Quella breve e importante stagione che si concluse molto presto e fu seguita dalla lunga fase della sinistra e di quel trasformismo che segnò la fine di ogni speranza, da alcuni nutrita già allora, di un sistema a due partiti sul modello britannico e che nelle sue diverse forme - come ha efficacemente illustrato lo storico Giovanni Sabbatucci - ha attraversato la travagliata storia della democrazia italiana. Ma nel 1994 la sfida berlusconiana e il nuovo sistema elettorale, maggioritario per il 75 per cento, avevano scardinato il vecchio sistema imperniato sul centro e prodotto un’inedita bipolarizzazione. Si poteva tornare a parlare di destra e sinistra. E la destra cominciava il suo cammino sotto la bandiera della rivoluzione liberale, come si diceva. Ma rivoluzione liberale non fu. E nemmeno fu il grande partito di massa liberale. Sarebbe ingeneroso non ricordare che lo "scandalo" della conquista del Governo da parte di Berlusconi provocò una levata di scudi e innescò fortissime reazioni e la presa di contromisure da parte di tanti e diversi attori, istituzionali, editoriali, economici. Così come non si deve sottovalutare il fatto che il tentativo di inaugurare un nuovo stile di Governo dovette scontrarsi con un assetto istituzionale creato appositamente per impedire la formazione di Governi forti. Ricordiamo tutti l’opposizione diffusa e feroce che incontrò il progetto di riforma delle pensioni firmato da Lamberto Dini - che se fosse stato approvato allora forse ci avrebbe risparmiato tanti problemi poi. Ma tutto ciò non assolve Berlusconi e il suo partito di allora. Forza Italia. Berlusconi pensava di entrare al Governo come si entra in un consiglio di amministrazione. La sua antipolitica gli impedì di comprendere che la politica non è solo rinuncia a fare per galleggiare («sopravvivere senza governare», come titolava il lavoro degli anni Settanta di Giuseppe Di Palma sul sistema politico italiano), compromesso al ribasso e spartizione. Ma è anche e soprattutto uno strumento per trasformare l’esistente. I grandi leader, di fronte alle strenue opposizioni ai loro progetti di cambiamento, si pensi a Charles de Gaulle o Margaret Thatcher, seppero comunicare ai cittadini i loro progetti con efficacia, vincere le resistenze andando verso il pubblico e utilizzando la loro legittimazione popolare come strumento politico. Berlusconi, molto abile in campagna elettorale, non è mai stato in grado di farlo, non era attrezzato: non basta avere la mentalità dell’imprenditore per vincere le proprie battaglie sul complicato campo della politica. E così non è stato in grado di assolvere a quel compito che sarebbe proprio di un leader di Governo, farsi portatore degli interessi diffusi, non ostaggio e vittima di quelli organizzati. Ma il fallimento della promessa di Governo berlusconiana è stata anche il fallimento del progetto di creare una solida e credibile offerta politica nel centrodestra, tanto che oggi ci troviamo di fronte a un cumulo di macerie. Quel fallimento, certamente figlio anche dei gravi limiti della cultura politica del leader, si deve in buona parte al perpetuarsi delle logiche carismatiche, senza mai il prodursi di alcun reale consolidamento, neanche nella fase calante del carisma. Sappiamo che quando il carisma è all’origine di un partito politico produce al suo interno delle dinamiche che rendono difficile il consolidamento, perché il leader stesso non è interessato a esso, anzi ostacola la creazione di stabili percorsi di carriera, così come di organismi e più in generale spazi che possano costituire luoghi di potere alternativi al suo, per tenersi le mani libere. Un esempio da manuale nella politica italiana è rappresentato dal Partito radicale di Marco Pannella, che ha rinnegato tutti i suoi figli più scalpitanti e ha impedito che il Partito radicale divenisse qualcosa di più di un movimento con un limitato consenso. La cosiddetta istituzionalizzazione del carisma diventa così difficile da realizzare, anche se non impossibile. Ci riuscì la dirigenza gollista e in particolare George Pompidou, quando ancora de Gaulle era regnante. Diverse condizioni certo facilitarono il processo, come il fatto che Pompidou resse l’esecutivo per diversi anni, mentre il Generale si trovava all’Eliseo. Ma anche la statura degli uomini, con lo stesso Pompidou che ebbe verso la fine della presidenza de Gaulle il coraggio di contrapporsi al suo leader. Non ci è riuscita, invece, la dirigenza del partito di Berlusconi. E torniamo qui ai nostri Gollum. Negli anni, coloro che avevano acquisito posizioni prima in Forza Italia e poi nel Popolo delle libertà non si sono mai seriamente preoccupati di dar vita a un partito che con la propria struttura e i propri principi ideali potesse sopravvivere al fondatore. Tutti quanti si sono trovati a godere di un ruolo proprio in virtù della loro obbedienza pressoché cieca, o comunque del rifiuto di esprimere in pubblico la benché minima critica al capo. Forse perché in molti casi figure di non grande rilievo non hanno creduto vero di poter usufruire di tanta visibilità e potere - in particolare nelle fasi di Governo - e si sono sempre ben guardati dal compiere mosse che potessero compromettere quella posizione. Inebriati da un potere conquistato per interposta persona, non hanno mai voluto allontanarsi dalla fonte del loro potere, dal loro Anello. Nel novembre 2008, sulla rivista Charta Minuta, Alessandro Campi auspicava che il partito che sarebbe nato di lì a poco si dotasse di «una struttura organizzativa stabile e radicata, di regole organizzative chiare e definite, di una rete di dirigenti-funzionari selezionata dal basso e di una solida base militante». Nulla di tutto questo è accaduto, anche a causa di ciò che già allora rilevava Campi, ovvero «l’adozione di un metodo di lavoro fin troppo verticistico» che penalizzava la partecipazione e inibiva qualunque dibattito e discussione. Dibattito e discussione non potevano avere alcuno spazio, infatti, nel partito del sovrano e dei suoi cortigiani e si vide, a questo proposito, come andò a finire con il dissenso interno espresso e guidato da Gianfranco Fini. Nello stesso numero di quella rivista, anche chi scrive richiamava la necessità di dotarsi di regole chiare di organizzazione, reclutamento e mobilità interna, che tra l’altro connettessero i ruoli di vertice con la capacità di creare consenso, per scongiurare il pericolo che il momento inevitabile della successione cogliesse impreparata la classe dirigente del partito. Cosa che è puntualmente avvenuta. Ma è interessante soffermarsi anche su un altro tipo di rovine che l’avventura berlusconiana ha lasciato dietro di sé. Il fallimento della rivoluzione liberale è stato accompagnato da una profonda confusione sul piano delle idee, ovvero è completamente mancata la capacità di costruire un coerente progetto di società. Anche le idee e i principi sono stati piegati alla contingenza o alle estemporanee preferenze di questo o quel personaggio politico di punta. L’iniziale progetto liberale si è arenato nel protezionismo e nell’antiglobalismo di Giulio Tremonti (per non parlare di alcune posizioni di un altro ex ministro, il socialista Maurizio Sacconi), mentre la vocazione a trasformare l’Italia in una democrazia maggioritaria è stata messa da parte a favore di scelte di corto respiro sulla legge elettorale - che in diverse occasioni hanno portato figure un tempo risolutamente maggioritariste a spiegare i pregi del proporzionale - e dell’incapacità di sostenere l’unico tentativo di introdurre correttivi alla forma di Governo, ovvero il progetto di riforma costituzionale del 2005. Per non parlare dell’involuzione profondamente illiberale in tema di diritti civili e libera scelta dei cittadini sulle questioni fondamentali attinenti la loro vita, per compiacere quelle che erano considerate un pilastro del proprio potere, ovvero le gerarchie vaticane. Un’involuzione che nel dibattito pubblico ha stravolto il significato di maggioranza politica con la legittimazione della tirannia della maggioranza - i cui pericoli erano già stati denunciati da Alexis de Tocqueville - da parte di tanti colonnelli del berlusconismo che, ignari o dimentichi degli insegnamenti del grande pensatore francese del XIX secolo, durante la loro battaglia per lo Stato etico (cattolico) ci hanno deliziato con le loro affermazioni sul potere della maggioranza di decidere su ogni aspetto dell’esistenza. Tanta pochezza ha trovato una naturale rappresentazione in quelle che sono divenute le voci più presenti del centrodestra nel dibattito politico, ovvero le voci dei giornali amici che con spregiudicatezza e volgarità hanno dato un sostanziale contributo a fare del confronto politico in Italia un susseguirsi di colpi bassi e gossip. Dal liberalismo al feltrismo e al sallustismo. Così oggi del Popolo della Libertà rimane un partitino del 15 per cento, in preda al caos, privo di ogni progetto politico e culturale. Il declino del suo leader, con l’accelerazione di questi ultimi due anni, segnata anche dalla fine del Governo Berlusconi e l’apertura della fase Monti, ha aperto la strada a ciò che era stato previsto: la libanizzazione del partito. La sensazione di macerie è ancora più acuta se si guarda a ciò che si aggira nell’area di centrodestra accanto al Pdl, dall’operazione neocentrista di una vecchia classe politica nostalgica della Prima Repubblica a quella montezemoliana che mette insieme potentati della cosiddetta «società civile» (ma non troppo): operazioni vecchie e ignare di un’opinione pubblica ormai altrove. Non è un caso, allora, che il gruppo più innovativo, Fermare il declino, incapace di trasformarsi in offerta politica, a un certo punto abbia cominciato a guardare a Matteo Renzi, cioè a sinistra! Nel tentativo di recuperare almeno una parte dei tantissimi elettori perduti, il Pdl ora, dopo il mai certo passo indietro di Berlusconi, prova a mettere in campo le primarie in vista delle elezioni della prossima primavera. Per istituzionalizzare il carisma, ha detto il segretario Angelino Alfano. Da istituzionalizzare però non c’è più nulla. Il carisma è evaporato e il leader fondatore è un intoppo, non una risorsa, nemmeno ideale. Se nel centrodestra, magari dopo un paio di giri fermi al palo, dovesse rinascere finalmente qualcosa, non potrà che essere altro rispetto all’eredità di Silvio Berlusconi. Il berlusconismo non è il gollismo. Non lo è anche perché non lascia nessuna eredità istituzionale, anzi. Con la sua disastrosa esperienza e, oggi, con i suoi giochetti mediocri per sopravvivere (vedi sostegno a soluzioni proporzionalistiche), rischia di trascinare tra le sue rovine anche gli unici veri successi di questo ventennio: la modernizzazione della comunicazione politica, la centralità della leadership e il bipolarismo. Tutto sbagliato, tutto da rifare, avrebbe detto Gino Bartali.