Marco Valsania, Il Sole 24 Ore 7/12/2012, 7 dicembre 2012
APPLE TORNA A PRODURRE IL «MAC» IN USA
Apple torna a produrre in America: il leader della capitalizzazione a Wall Street, che già vanta eserciti di investitori, ha deciso di aumentare anche il numero dei lavoratori in patria, ricominciando a sfornare computer "made in Usa" per la prima volta dagli anni Novanta.
Tim Cook, svelando l’iniziativa manifatturiera a Bloomberg Businessweek e alla rete televisiva Nbc, ha delineato un programma pilota: cento milioni di dollari – i forzieri del gruppo traboccano di 120 miliardi in contanti – che saranno investiti per sostenere interamente dal 2013 una delle attuali linee di Mac, ancora
da definire.
Lo stesso Cook ha ammonito che i futuri piani di Apple – come la reindustrializzazione degli Stati Uniti dopo la sparizione di otto milioni di posti nel settore – dovranno fare i conti con ostacoli non da poco: il sistema dell’istruzione, ha denunciato, resta inadeguato a preparare i giovani ai moderni processi produttivi dell’hi-tech. «Ci sono qualifiche che nel tempo hanno abbandonato il paese assieme alla attività manifatturiera – ha detto –. Serve un impegno assiduo per riconquistarle».
Ma il passo della Apple è significativo: Cook ha sottolineato come il gruppo da tempo si sforzi di «produrre sempre più in America», stimando che abbia contribuito alla creazione di ben 600mila posti di lavoro. Già alcuni esemplari del nuovo iMac da scrivania super-sottile appena lanciato recano la scritta "Assemblato negli Usa", anche se Cook ha indicato che da sempre Apple prepara localmente alcuni computer. Per la società, dunque, il nuovo annuncio è un sicuro colpo d’immagine: l’esodo della produzione verso la Cina e le altre nazioni asiatiche, a caccia di bassi costi e alti profitti, è stata all’origine di forti polemiche sulle condizioni di lavoro. «Abbiamo la responsabilità di creare occupazione» in patria, ha dichiarato ieri Cook. Apple, oltretutto, deve riscattare recenti appannamenti della sua stellare performace in Borsa: mercoledì il titolo ha perso il 6%, la caduta più brusca da quasi quattro anni.
Il rimpatrio, però, offre anche e soprattuto nuove dimostrazioni di una progressiva spinta alla reindutrializzazione del paese, il cosiddetto "reshoring", da parte di note e meno note firme della Corporate America. Un rimpatrio legato a ben più che a scelte di singole aziende: in gioco il recupero della competitività degli Stati Uniti e l’alleggerimento di tensioni all’estero che danneggiano sofisticate quanto delicate reti di furniture, soprattutto nella tecnologia. Così Google ha studiato produzioni di dispositivi in Texas e General Electric è tornata a fare caldaie. Le case automobilistiche hanno riaperto catene di montaggio e Wham-o ha riportato i fresbee in California e Michigan. Mentre si moltiplicano gli studi, dal Boston Consulting Group al Council of Supply Management Professionals, che prevedono continui rimpatri, almeno parziali, da parte di quasi il 40% delle grandi imprese industriali. Apple, all’avaguardia quando si tratta di innovazione, non vuole trovarsi fanalino di coda di una rinascita manifatturiera.