Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 07 Venerdì calendario

SE I COLOSSI DEL CREDITO DIVENTANO HEDGE FUND - I

derivati. Sempre loro (o quasi). Uniti all’accesso di leva finanziaria. Un cocktail che, spesso, fa somigliare le banche non tanto a società che erogano il credito, bensì a hedge fund. Una situazione, giocoforza, che può dare vita a instabilità. Sia di sistema che dei singoli istituti di credito stessi. Una precarietà che, rispetto ai derivati, è soprattutto conseguenza di un duplice aspetto: da un lato, il fatto che siano in gran parte trattati su mercati non regolamentati (Otc); dall’altro, la loro stessa struttura a leva che «induce» al rischio. Ebbene, su quest’ultimo fronte (secondo i dati R&S Mediobanca) i principali istituti europei vantavano, nel giugno scorso, un rapporto tra derivati attivi e patrimonio netto tangibile in calo (-0,3%) a 6,4. Un dato in sè confortante che però, come tutti i numeri aggregati, racconta metà della storia. Analizzando i singoli Paesi, infatti, saltano fuori differenze notevoli. Così, per esempio, i primi istituti tedeschi (Deutsche Bank e Commerzbank) hanno un rapporto tra derivati attivi e mezzi propri che vale 15,1. Inferiore solamente a quello in Svizzera (16,4 la media tra Credit Suisse e Ubs) e ben al di sopra a ciò che accade in Italia. Qui, tra Intesa Sanpaolo e UniCredit, il valore che si raggiunge è di 2,2. Potrebbe dirsi: solamente un caso. Non proprio. La situazione, infatti, si replica sul fronte della leva finanziaria. I primi istituti italiani, al 30/6/2012, vantano un rapporto tra totale attivo tangibile e patrimonio netto tangibile di 19,6 (27,9 la media europea). Le principali banche teutoniche, dal canto loro, viaggiano su un valore di 45,4. Il più alto nel Vecchio continente (40,1 per gli gnomi svizzeri).
Insomma, seppure è sbagliato descrivere i derivati come pericolosi in sè, è indubbio che, in alcune banche europee, i numeri testimoniano un’esposizione eccessiva a questi strumenti, oltre che una leva troppo alta. La situazione, peraltro, non è «mitigata» dall’eventuale elevato numero di crediti dubbi. Cioè, l’esperto potrebbe obiettare: i derivati sono utilizzati quale «sana» copertura dei prestiti a rischio. Così non è. Le banche tedesche, infatti, hanno solamente il 28% di crediti dubbi rispetto al patrimonio netto tangibile. In Italia, al contrario, la percentuale è ben più alta (78%). Quindi, il dubbio che determinati istituti di credito eccedano nell’utilizzo dei derivati è assolutamente legittimo. Così come è sensato, rispetto al tema degli Otc e dei controlli, realizzare una considerazione. La Germania, fin qui, è tra i più fieri oppositori della vigilanza bancaria unica. Berlino, cioè, è contro il trasferimento di questa funzione dalle singole banche centrali alla Bce. Forse non vuole che soggetti veramente indipendenti guardino in casa sua. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.