Liana Milella, la Repubblica 7/12/2012, 7 dicembre 2012
DISCO VERDE ALLE “LISTE PULITE” VIA I CONDANNATI A PIÙ DI 2 ANNI
Ci vogliono oltre sei ore, a palazzo Chigi, per approvare il decreto legislativo sulle “liste pulite”. È in bilico in molti momenti, travolto dalla collera di Berlusconi che ne contesta lo spirito e il contenuto, lo giudica «una violazione dei diritti fondamentali» e «l’ennesima vittoria del partito dei magistrati». Si susseguono le riunioni. Il sottosegretario alla presidenza Catricalà tenta più di una modifica e alla fine ne ottiene una che, come vedremo, è significativa. Ma alla fine Monti e i tre ministri delegati — Cancellieri all’Interno, Severino alla Giustizia, Patroni Griffi alla Funzione pubblica — tengono duro e spuntano il voto. Quasi alle 19 possono scendere in conferenza stampa e annunciare che il decreto «c’è». A chi gli chiede se il testo è stato ammorbidito Monti risponde: «Particolari orientamenti o sentimenti delle parti politiche non hanno influenzato il lavoro del governo che è stato rigoroso».
CRITERI E CLAUSOLE
Il decreto ha retto. «Ancorato a criteri obiettivi e non a una lista di reati visto che ce ne sono un migliaio » dirà il Guardasigilli Paola Severino. «Con precise clausole di decadenza» aggiungerà Anna Maria Cancellieri. Anche se Antonio Catricalà è pronto a rettificare: «Dopo il voto sarà il Parlamento a decidere su requisiti e decadenza dalla carica di parlamentare». Che
tradotto significa: chi vuole candidarsi per Camera o Senato, ma ha sulle spalle una condanna definitiva da due anni in su per reati gravissimi (mafia, terrorismo), per un delitto di corruzione, per uno che la legge attuale giudica grave tant’è che per esso prevede il carcere non inferiore nel massimo a quattro anni, non potrà entrare in lista. Ma per colui che si è candidato perché, ad esempio, condannato solo in primo grado o in appello per la stessa lista dei reati, ed è stato eletto, qualora subentri durante il quinquennio la condanna definitiva, la decadenza non sarà automatica, come l’uomo della strada potrebbe ipotizzare, ma saranno Camera o Senato, con le rispettive giunte per le elezioni, a valutare e decidere. Intendiamoci. C’è chi ritiene che, trattandosi di un principio costituzionale, esso sia sacrosanto. Recita l’articolo 66: «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione
dei componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità o di incompatibilità».
Decreto alla mano, nella vecchia e nella nuova versione, diffusa poche ore prima del consiglio, è questa l’unica modifica introdotta.
La si comprende se la si legge alla luce della situazione giudiziaria e della possibile condanna di Berlusconi. È proprio la regola della decadenza che lo fa infuriare. Condannato il 26 ottobre a 4 anni per frode fiscale nell’ambito
del processo Mediaset, l’ex premier già vede i giudici correre e affannarsi per chiudere al più presto appello e giudizio di Cassazione. Se la pena fosse confermata dovrebbe scattare la decadenza. Sulla quale invece ora si pronunceranno
le Camere.
Bisogna leggere le modifiche al decreto per vederne la sottigliezza. Recitava il primo testo: «Qualora una causa di incandidabilità sopravvenga nel corso del mandato elettivo, essa comporta la decadenza
di diritto
dalla carica che viene dichiarata dalla Camera di appartenenza». Quel «di diritto» viene cassato e viene aggiunto il riferimento «all’articolo 66 della Costituzione». E poi: «Le sentenze definitive di condanna sono comunicate alla Camera di appartenenza
ai fini della dichiarazione di decadenza». Le ultime parole diventano «ai fini della relativa
deliberazione».
DECADENZE NON AUTOMATICHE
In soldoni ciò che significa? Che se Berlusconi o Dell’Utri o Cosentino o un altro degli inquisiti più o meno famosi dovessero essere condannati in via definitiva quando sono stati rieletti la loro decadenza non sarà automatica, ma soggetta a un voto. È tutto da vedere se, a questo punto, il decreto non rischi un’incostituzionalità rispetto al principio di uguaglianza perché, a parità di condizione di due condannati definitivi, il primo sarà escluso dalle liste quando si candiderà, il secondo potrà restare in Parlamento pur condannato.
Di questo, e non solo, si discute in consiglio dei ministri. Questa modifica, pur inserita, non basta al Pdl. Anche perché, come dice il segretario Alfano, «Berlusconi non sarà condannato». Il Pdl contesta la regola complessiva, la sua applicazione rigida, con una non candidabilità pari al doppio della interdizione dai pubblici uffici, e non inferiore comunque a sei anni. Per loro è troppo. Per Di Pietro
è «troppo poco», perché restano candidabili i condannati non definitivi. «È una legge che ha due vulnus» dice l’ex pm, quella del tipo di condanna, e quella dei limiti di pena a due anni.
È comunque una barriera. Se pur limitata. Che deve diventare operativa prima delle elezioni. «Non ci sono ragioni per ritardi» dicono i due Democrat Ferranti e Orlando. Ma è scontato che il Pdl tenterà di seminare sassolini negli ingranaggi. Il parere delle commissioni parlamentari è obbligatorio, ma non vincolante nel contenuto. Ci sono 60 giorni di tempo. Le elezioni incombono, c’è Natale di mezzo. Le Camere possono lavorare anche una volta sciolte in regime di ordinaria amministrazione. Ma è evidente che basta un nonnulla per impedire al consiglio dei ministri di esprimere l’ok definitivo.