Ferdinando Camon, la Stampa 7/12/2012, 7 dicembre 2012
QUELLA DI MISSERI NON È LA SCELTA DI UN BUON PADRE
Sta entrando nel cervello dei lettori e telespettatori un sospetto: che Michele Misseri accusi se stesso per proteggere la figlia. Nessuna prova in tal senso, sia chiaro, è solo un’ipotesi. Ma finché l’ipotesi circola, il pericolo è che la gente pensi: «Come ama la figlia! Che grande padre è!». Non è così: è bene amare i figli, sacrificarsi per loro, aiutarli nelle difficoltà, proteggerli, ma non è bene proteggerli dalla giustizia. E tanto meno andare in prigione al posto loro. In luogo della giustizia (il colpevole dentro), realizziamo due ingiustizie: il colpevole fuori e un innocente dentro. Il colpevole dentro migliora il mondo, il colpevole fuori e l’innocente dentro peggiora doppiamente il mondo.
Non sappiamo perché il difensore di Michele abbia bruscamente rinunciato all’incarico. Lui dichiara: «Avevo studiato una linea da seguire, e ora Michele fa tutto il contrario». Par di capire che gli avesse consigliato di non autoaccusarsi, e che volesse salvarlo dal carcere perché lui non c’entra col delitto, e lasciare che la giustizia cerchi il colpevole e lo metta in carcere, anche se fosse sua figlia. È difficile pensare che il difensore consigliasse a Michele di mentire per salvarsi, pare invece che non accetti che Michele voglia mentire per condannarsi.
Non c’è grandezza in questa scelta, non c’è protezione della figlia e della moglie, non c’è senso della giustizia. Adesso parliamo in generale, di un padre (non necessariamente Michele) che vuole pagare per l’errore di un figlio. Questo padre non ama il figlio, non gli fa del bene, ma lo danneggia e gli fa del male. Se un figlio ha commesso un grave crimine, scontare la pena non è un suo «dovere», odioso come tutti i doveri, ma è un suo «diritto», prezioso come tutti i diritti. Il padre che protegge il figlio dalla condanna, sapendo che quel figlio ha ucciso, gli toglie l’unico prezioso diritto che può dare un senso alla sua vita futura. La condanna e l’espiazione realizzano quella che chiamiamo redenzione, anche se, nel caso di un omicidio, non ci può essere vera redenzione: la redenzione rimette il mondo in equilibrio, ma col delitto l’equilibrio del mondo è rotto per sempre, non ha riparazione. L’omicidio è la colpa irreparabile per eccellenza. Se tu rubi, puoi restituire. Ma se uccidi, non puoi richiamare in vita. La morale e la giustizia ci insegnano che tutti devono potersi riscattare, nessuno va bandito dall’umanità per sempre: per questo stiamo lottando per abolire l’ergastolo, la formula «fine pena mai». Dobbiamo sostituirla con «basta pena, quando la pena è bastante». Ma quand’è che è bastante? Risponde Dostoevskij (mi torna sempre in mente, quando tocco quest’argomento): Raskolnikov ha ucciso una vecchietta per la più turpe delle ragioni, non riteneva che la vita della vecchietta fosse degna di essere vissuta. Una motivazione nicciana: «I vermi, nel pane della vita, son necessari?» (Nietzsche). Ci mette anni di carcere a capire che non ha fatto «del» male, ma «il» male. Quando capisce questo, fa i conti di quanti anni deve ancora scontare, e piange: sono pochi, lui vorrebbe scontarne di più, merita una condanna maggiore. Quando un assassino protesta per accorciare la pena, non è redento. La redenzione c’è quando l’assassino si trasforma in giudice di se stesso, e si condanna a una pena più lunga di quella che il vero giudice gli ha assegnato. Uno che andasse in prigione al posto di un altro non soddisfa la giustizia, ma la boicotta. È anche possibile che, sotto sotto, negli strati profondi dell’inconscio dove noi non vediamo, un figlio sia pronto a commettere una grave colpa perché sente che la famiglia è pronta a boicottare la giustizia. I figli vanno protetti dal male, ma tenendo conto di una cosa: anche l’eccessiva protezione è un male.
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