Francesca Sforza, la Stampa 7/12/2012, 7 dicembre 2012
PROFESSIONE INFILTRATO “MI PIACEREBBE PROVARCI IN VATICANO”
«Un solo Wallraff nel mondo non è abbastanza», dice uno dei tantissimi commenti online a chiusura dell’ultimo documentario del giornalista tedesco postato su YouTube. In Svezia e Norvegia il suo modo di fare giornalismo ha addirittura dato vita a un verbo: wallraffa, «scrivere un reportage sotto copertura». «Quando sono andato a Stoccolma per ritirare un premio - dice oggi, nella sede della casa editrice L’Orma, che ha pubblicato il suo ultimo libro Notizie dal migliore di mondi - sono stato addirittura ricevuto dal premier. Sì, diventare un verbo mi ha fatto un certo piacere, non lo nascondo».
Settant’anni, da oltre quaranta icona del giornalismo d’inchiesta tedesco, Wallraff ha fatto dei reportage sotto copertura la cifra del suo lavoro e del suo successo mondiale.
Günter Wallraff, si sente più giornalista o più difensore degli ultimi?
«Per me si tratta di una cosa a metà, in molti casi ad esempio mi sono trovato a non scrivere niente delle mie esperienze, soprattutto quando ero sotto copertura nel mondo del lavoro. Preferivo minacciare di scrivere qualcosa e contrattarlo con un trattamento migliore per i lavoratori, perché in diversi casi mi era sembrato più importante far valere dei diritti che scrivere un buon reportage».
Secondo lei oggi siamo più o meno razzisti dai tempi in cui pubblicò Faccia da turco ?
«Qualcosa è cambiato, in molti casi in meglio, in alcuni addirittura in peggio. Ricordo che quando uscì Faccia da turco la reazione dell’opinione pubblica tedesca fu profonda: per la prima volta un immigrato aveva voce, e i tedeschi erano chiamati ad ascoltarla, e ad ascoltare se stessi. Fu uno choc, ma allo stesso tempo si cominciò a creare una disposizione collettiva, direi, a guardare con occhi diversi chi era diverso. Ciò detto, oggi, in un mondo che è molto differenziato, resiste uno zoccolo duro della popolazione che, indipendentemente dal ceto, dallo status e dal benessere, coltiva pregiudizi e pensieri razzisti».
Quando si è «infiltrato» nella redazione della Bild ha avuto modo di interrogarsi sulla libertà di stampa. Quei tempi possono dirsi definitivamente alle nostre spalle?
«Credo che resista ancora oggi, in quel modo di fare giornalismo, la tendenza a stimolare pulsioni più che a informare. Ho avuto di recente una discussione pubblica con il direttore della Bild e anche se nella pratica quotidiana l’intenzione è quella di rendere un servizio al cittadino, alla fine mi sembra che la tendenziosità venga sempre fuori, come l’impulso di un maniaco sessuale».
Cosa pensa della prigione per i giornalisti?
«No, mai, non in quanto giornalisti e non in ragione del loro lavoro».
È stato più difficile mettersi nei panni di un immigrato o di un giornalista?
«La mia esperienza peggiore in assoluto è stata quella nella redazione di Bild , ero sempre sottoposto a uno stress incredibile, con continue questioni di coscienza. Ho avuto anche problemi psicosomatici. Non posso dire la stessa cosa di quando mi sono messo nei panni del lavoratore turco. Lì ho avuto problemi respiratori, di salute, ma ci ho messo di meno a riprendermi. Ho stretto pure profonde amicizie, ero provato fisicamente ma arricchito. Anche nella redazione ho avuto amici, intendiamoci, ma il nostro modo di essere amici aveva a che fare con le confidenze di chi vive una perenne frustrazione, più che con la condivisione».
Un consiglio alle giovani generazioni di giornalisti?
«Trovarsi un secondo lavoro, oppure specializzarsi moltissimo, imparare lingue straniere, avvicinare mondi nuovi e lontani».
Se vivesse in Italia dove vorrebbe infiltrarsi?
«In Vaticano sicuramente, oppure tra i dipendenti di una emittente di Berlusconi, quando era presidente del Consiglio però».