Gianni Riotta, la Stampa 7/12/2012, 7 dicembre 2012
L’AMORE PER LE CURVE E L’ODIO PER GLI ANGOLI
La curva e l’angolo: in questi due luoghi geometrici, dolcezza dell’architettura e acuta asprezza della politica, sono compresi genio e vita di Oscar Niemeyer, il maestro brasiliano scomparso l’altra notte in un ospedale di San Paolo alle soglie dei 105 anni.
«La forma è femminile» era il suo credo, sensuale, romantico, caro a chi da ragazzino giocava sulla grande spiaggia di Copacabana e, riverito genio ultracentenario, da uno studio a picco su quella spiaggia continuava a lavorare. Niemeyer detestava gli angoli e adorava le curve, femminili come quelle delle bagnanti che ammirava dalla finestra schizzandole su graffiti di carta lasciati poi a decorare le pareti. Curve sinuose come le volute di fumo del sigaro cubano che, fino a tardi nella vita, accendeva per concentrarsi.
«Non mi attrae l’angolo retto, non la linea diritta, dura e inflessibile, tracciata dall’uomo. Mi attrae la curva, libera e sensuale, la curva che trovo nelle montagne del mio paese, nel corso flessuoso dei suoi fiumi, nel corpo amato di una donna», ripeteva. Nel 1928 sposò Annita Baldo, papà immigrato italiano, morta poi a 93 anni. La figlia Ana Maria apre una genealogia di cinque nipoti e venti pronipoti.
Ci sono architetti del Novecento più celebri, archistar precedute ovunque da legioni di pierre, ma pochi hanno lasciato un segno come Oscar Ribeiro de Almeida Niemeyer Soares Filho, rampollo di un tipografo che adotta, brand esotico, il nome della nonna Niemeyer. Dalla prima chiesa di San Francesco a Pampulha (il debutto vero, una clinica militare eretta a Rio, non lo rese mai orgoglioso), la sua curva appassiona chi guarda con dolcezza, calore, incontro. Disegnava allora per lo studio Lúcio Costa, ma la svolta formidabile è, nel 1936, l’incontro con Le Corbusier, che considera «maestro». Insieme lavoreranno allo squadrato edificio delle Nazioni Unite, nel dopoguerra, vetro e cemento per un progetto che si specchia sull’East River di New York, tracciato da molte mani e molti saperi, ma dove Niemeyer si riconosce non nelle curve, stavolta, ma nella grazia. Il sogno di pace del dopoguerra: che, finalmente, gli angoli della storia si piegassero in curve di armonia.
Molti considerano Niemeyer il padre di Brasilia, la capitale del Paese, città costruita dal nulla come quelle fantastiche ideate da Calvino. Perfino il critico celebre del New York Times , Paul Goldberger, commise questo errore. Ma quando l’ex sindaco di Belo Horizonte, Juscelino Kubitschek, politico innamorato delle linee moderne nel disegno, diventa presidente del Brasile, nel 1956, a Lúcio Costa tocca il compito di creare lo schema urbanistico di Brasilia, Niemeyer ne disegna i pezzi cruciali: il Congresso Nazionale, la Cattedrale, il Museo, la Biblioteca, arabeschi di curve che ipnotizzano.
Brasilia, capitale ideale oggi circondata dalle case dei figli degli operai che la costruirono, non piace agli intellettuali. Per il critico italiano Bruno Zevi è «città di Kafka», la filosofa Simone de Beauvoir ne depreca «l’aria di annoiata eleganza… le strade che non portano da nessuna parte», per Goldberger «Niemeyer è ormai fuori tempo…». Eppure, perfino in questi giudizi negativi, Niemeyer avrebbe riconosciuto il tratto di lentezza, di indolenza, di meditabonda spiritualità che persegue disegnando e fumando: «Prima di lavorare leggo Sartre», forse La nausea .
In ritardo il Novecento ne riconosce la forza: «Niemeyer rimase a lungo marginale», osserva l’architetto Frank Gehry. «Non aveva mica un ufficio stampa! Lavorava lontano, non lo capivamo. Ci dicevano: sta costruendo una città in una giungla a colpi di machete: eravamo architetti progressisti, ci sembrava una maledizione, da antisociale». E l’archistar Zaha Hadid: «La generazione dopo il 1968 era stufa della monumentalità del Modernismo: viali enormi, da parate militari. Tanti pensavano così, senza capire che Oscar Niemeyer aveva una ideologia differente. Ho cominciato a studiarlo negli Anni Settanta-Ottanta: c’erano pochissimi libri su di lui». Nel 1988, quando finalmente riceve il premio Pritzker, Nobel dell’architettura, il genio Niemeyer deve accontentarsi di dividerlo con Gordon Bunshaft. Pochi maestri del XX secolo hanno tracce così forti nel XXI: Rem Koolhaas ne cita il mix di «surrealismo e razionalità» in lavori con la Fondazione Prada che organizza le sue mostre in un altro capolavoro siglato Niemeyer, la sede del Partito comunista francese a Parigi. Alla griffe italiana seguono Dior e Louis Vuitton. La Hadid gli fa costruire il padiglione temporaneo alla Serpentine Gallery di Hyde Park, definendola «Cartolina dal Brasile a Londra».
Se Niemeyer ha sofferto per la lunga distrazione degli europei, di certo non se ne lagna. Per lui essere considerato «liberale» rimane un insulto: era un comunista, «io e Fidel Castro siamo gli ultimi». Va a Mosca a ricevere il premio Lenin nel 1963, ma dice schietto ai colleghi sovietici: «La vostra architettura è orrenda». L’anno dopo un colpo di Stato sostenuto dagli americani abbatte il governo di João Goulart. Niemeyer rientra da Lisbona, il suo studio è perquisito, deve abbandonare il Paese, in esilio, dopo pesanti interrogatori della polizia. Il suo progetto per l’aeroporto di Brasilia è stracciato, la scuola dedicata a Julia Kubitschek demolita. Un ufficiale lo avverte: «La giunta sa che mantiene con i suoi fondi i leader dell’opposizione in clandestinità. Domani l’arrestano». Grazie allo scrittore Malraux, Niemeyer fugge a Parigi. Torna a Rio solo con la fine della dittatura, ma quando il Partito comunista brasiliano cambia nome in Partito popolare socialista, Niemeyer aderisce a un gruppo marxista-leninista e dichiara al quotidiano Globo : «Il comunismo è morto? Balle».
Arnoldo Mondadori lo invita a disegnare il quartiere generale della sua casa editrice a Segrate, brume dell’hinterland milanese al posto della giungla e della spiaggia dorata: «Mondadori era una brava persona, molto simpatica. L’ho visto per la prima volta a casa sua: abbiamo pranzato e poi ci siamo messi a giocarea calcio. O meglio: lui giocava, mentre io davo calci alla palla. Era un gran lottatore e una persona semplice. Mi è piaciuto molto». Progettò in esilio anche l’Università di Costantine in Algeria e i due lavori furono alla fine i più amati di un secolo di lavoro. Ma quando Jerry Bortolan della rivista Hortus gli chiede a bruciapelo «E tra le due quale le piace di più?», risponde serafico «Mondadori».