Vittorio Emanuele Parsi, la Stampa 7/12/2012, 7 dicembre 2012
IL COMPROMESSO IMPOSSIBILE PER L’EGITTO
Speriamo di essere smentiti dai fatti, ma la probabilità che si possa raggiungere rapidamente un compromesso tale da riportare la calma in Egitto è estremamente bassa. Tutti i protagonisti di questa partita a tre il presidente Mohamed Morsi e il fronte islamista, l’opposizione riunita nel Fronte di Salvezza Nazionale, e l’esercito sono consapevoli di star giocando probabilmente la manche decisiva per il loro futuro.
Per il presidente che, non dimentichiamolo, ha dato per primo fuoco alle polveri, si tratta di blindare l’operazione grazie alla quale i Fratelli Musulmani e i Salafiti si sono impossessati di una rivoluzione spontanea, per cui altri hanno versato il proprio sangue e guidata al successo nei confronti del regime da una leadership «diffusa», espressione della parte più evoluta ed urbana della società civile egiziana.
La decisione di sottrarre gli atti presidenziali al sindacato della magistratura significa, considerato che anche il legislativo è dominato dagli islamisti, abolire per decreto la divisione dei poteri. Il fatto che sia un provvedimento temporaneo non rappresenta in alcun modo una garanzia, giacché l’adagio per cui «in politica non c’è niente di più definitivo del provvisorio», trova nella tecnica del colpo di Stato la sua perfetta realizzazione. La sua ostinazione nel sottoporre a referendum popolare la bozza costituzionale a due settimane dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea svela le reali intenzioni del presidente: impedire che nella società e sui media si possa svolgere un vero dibattito informato sui contenuti della nuova Costituzione, e cercare piuttosto la prova di forza, il plebiscito (mezzo plebiscito, in realtà) attraverso il quale saldare il potere del raiss alla legittimazione delle moltitudini. Una sostanziale riedizione della strategia nasseriana, ma questa volta in chiave islamista. È possibile che il presidente abbia sopravvalutato la sua forza, considerato le dimissioni che stanno fioccando anche dal suo entourage e l’invito a ritirare il decreto rivoltogli dall’Università islamica di Al Azhar. Resta comunque poco credibile che la violenza scatenata dai suoi sostenitori nei confronti degli oppositori radunati in sit-in permanente davanti alla residenza presidenziale di Helioplis non abbia goduto di un suo avallo perlomeno implicito.
Dopo la rimozione del feldmarescialllo Tantawi, appena pochi mesi orsono, Morsi deve aver pensato che licenziando il procuratore generale della Repubblica Abdel Meguid Mahmoud, e scrollandosi di dosso la magistratura, il suo progetto sarebbe scivolato placidamente verso la realizzazione, considerata la litigiosità delle forze dell’opposizione. In ciò ha probabilmente commesso un errore non così dissimile da Mubarak: ha cioè ignorato la forza di quella società civile che fu capace di provocare la caduta del «faraone» e che oggi ha costretto i partiti ostili al presidente a fare fronte comune. Ancora una volta il popolo ha trovato da solo la strada per piazza Tahrir e il successo della manifestazione di martedì scorso ha dato un segnale della rilevanza dell’ostilità a un presidenzialismo autoritario e clericale che è presente in almeno metà della società egiziana. È in questa metà che si ritrova la maggioranza dei protagonisti della primavera egiziana, della rivoluzione spontanea che ha sorpreso il mondo, i cui punti di riferimento ideali sono il premio Nobel per la pace Mohamed El Baradei e il liberale Amr Moussa. Tra le donne senza velo, i giovani e gli esponenti delle professioni che martedì scorso si sono dati appuntamento in piazza era evidente la consapevolezza di come la sfida di questi giorni rappresenti forse l’ultima occasione per tornare in possesso della «loro» rivoluzione, prendendosi la rivincita su chi ritengono li abbia espropriati, defraudandoli di una vittoria guadagnata col sangue.
Il ritorno in piazza dei militari, su ordine presidenziale, potrebbe significare che Morsi ha l’effettivo controllo dell’esercito, al punto di poter contare sulla sua fedeltà. Ma non è da escludere che si sbagli anche in questo caso e che, se la situazione dovesse degenerare, l’esercito torni all’antico, a una tradizione che va ben oltre Mubarak, Sadat e persino Nasser, ma che affonda nelle origini dell’Egitto moderno: e si proponga come «salvatore della Patria», imponendo la propria soluzione ai due popoli che si fronteggiano in piazza Tahrir. Anche per l’esercito questa rappresenta forse l’ultima finestra di opportunità per tornare protagonista e difendere i privilegi di cui le imponenti, ordinate e ricche installazioni militari che occupano tanta parte della strada tra Il Cairo e il suo aeroporto forniscono una plastica e inequivoca rappresentazione. Ovviamente un simile intervento verrebbe presentato come «temporaneo» e giustificato dall’essere l’esercito il solo in grado di impedire la collisione sempre più violenta dei due Egitti, quello di Morsi e quello del Fronte di Salvezza Nazionale. Un richiamo implicito alla millenaria storia del Paese, in cui il faraone era chiamato «il signore dell’Alto e del Basso Egitto», e indossava le due corone insieme, a rappresentare che il suo potere derivava dalla capacità di tenere uniti e dominare due Paesi una volta distinti.