Sergio Rizzo, Corriere della Sera 7/12/2012, 7 dicembre 2012
NELLA GIUNGLA DEI CONCORSI TRUCCATI NON C’È SPAZIO PER IL MERITO
In questa curiosa Italia dove la legge è uguale per tutti ma per qualcuno è più uguale, dove le norme devono essere «interpretate» prima di venire «applicate, e dove la lotteria del ricorso al Tar è sinonimo di certezza del diritto, si riesce regolarmente ad aggirare perfino uno dei pilastri fondamentali del vivere civile sancito dalla Costituzione. Più chiaro di così, l’articolo 97 della Carta non potrebbe essere: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». Negli anni, però, la nostra creatività ha scovato mille modi per far prevalere su questo sacrosanto principio parentele, amicizie e legami d’altro genere. Il caso classico è quello delle assunzioni per chiamata diretta nelle società controllate dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali. Ricordate lo scandalo delle municipalizzate romane, rimpinzate di raccomandati da politici e sindacalisti? Qualche anno fa si è poi scoperto che il Consiglio regionale della Campania aveva centinaia di dipendenti in pianta stabile senza avere mai indetto un concorso pubblico dal 1971, quando la Regione era nata. Assunti da società pubbliche, erano stati distaccati presso gli uffici consiliari e poi «stabilizzati» con qualche leggina regionale. Ma non stupitevi: la pratica della «stabilizzazione» per legge, spesso votata di notte pochi giorni prima delle elezioni, è diventata ormai una regola comune in quasi tutte le Regioni.
Ma c’è un mezzo ancora più odioso per evitare l’obbligo del concorso. È il concorso stesso. Non passa giorno senza che arrivi la segnalazione di qualche presunto abuso nelle valutazioni, di regole studiate ad hoc per favorire questo o quel candidato, di esclusioni paradossali dalle selezioni pubbliche, di commissioni d’esame costruite in modo sospetto. Addirittura di ricorsi al Tar che inspiegabilmente si bloccano, mentre ricorsi gemelli procedono speditamente fino a spalancare a chi li ha presentati, di solito giovanotti dal nome eccellente, la strada di una prova d’appello spesso risolutiva. Certi concorsi pubblici assomigliano moltissimo a certi appalti pubblici nei quali si sa già in partenza chi sarà il vincitore.
Le cronache sono sempre più piene di casi sconcertanti. Come quello del famoso chirurgo Mario Lanzetta, un luminare della ricostruzione della mano, al quale per nove anni è stata negata la cattedra di ortopedia, nonostante cinque sentenze a lui favorevoli. Oppure quello del cardiochirurgo diventato professore dopo aver superato l’esame davanti a una commissione composta da due igienisti e tre dentisti: ma era figlio del rettore di una grande università nella quale già insegnavano moglie e figlia. O ancora quello di un certo ateneo meridionale dove l’autorità Anticorruzione allora guidata dall’ex prefetto Achille Serra aveva scoperto che «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugio legano nel 50 per cento dei casi il corpo docente con personalità del mondo politico, forense o accademico».
E non succede soltanto nelle università. Giuseppe Oddo ha raccontato martedì sul Sole 24 ore di un concorso per dirigenti della Regione Lombardia «mai apparso in Gazzetta ufficiale», vinto da 31 persone: molte delle quali, guarda caso, appartenenti al movimento di Comunione e liberazione «il cui esponente più noto», ha sottolineato il giornalista, «è il presidente della Regione Roberto Formigoni»: fra di loro anche il nipote di un vescovo e il biografo del fondatore di Cl don Alberto Giussani. Un concorso poi dichiarato illegittimo tanto dal Tar quanto dal Consiglio di Stato, ma grazie a un cavillo quei 31 restano al loro posto.
Per non parlare delle autorità indipendenti, oggi una delle poche occasioni che si offrono ai nostri giovani di entrare a far parte di una classe dirigente «tecnica» di livello europeo. Basta dare uno sguardo agli elenchi di chi ci lavora. Si scopriranno innumerevoli coincidenze con illustri cognomi. Naturalmente hanno tutti superato un concorso. Magari anche molto selettivo, ne siamo assolutamente convinti. Peccato che talvolta ci sia una discrezionalità forse eccessiva (e difficilmente controllabile) nel giudizio di certi requisiti. Facciamo un esempio? Per essere ammessi a un recente concorso bandito da un’authority si assegnavano fino a 14 punti su un massimo di 50 per le esperienze post laurea. In che modo? Quattro punti per le esperienze ritenute «sufficienti», otto per quelle «buone», dodici per le «ottime» e quattordici per le «eccellenti». Ma perché un’esperienza dovesse essere considerata soltanto «sufficiente», piuttosto che «eccellente», non era specificato. Nello stesso concorso venivano attribuiti al massimo quattro punti su 50 per la conoscenza delle lingue. Così da non penalizzare chi non sapeva una parola d’inglese o spagnolo? Boh...
C’è un posto di lavoro, ma che tu non potrai mai avere anche se studi e fai sacrifici per migliorare la tua preparazione perché è già prenotato da chi ha qualche santo in paradiso: è il messaggio più odioso che si possa mandare ai giovani. Toglie loro anche le residue possibilità di sperare, oggi che la speranza è così poca. È ora di dire basta ai concorsi truccati, falsati, pilotati. Un Paese che ha la meritocrazia nella Costituzione, ma poi non assicura ai suoi figli parità di condizioni, che Paese è?