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 2012  dicembre 07 Venerdì calendario

SIAMO CRESCIUTI TRA REGOLE E ANARCHIA PER DIVENTARE ARTISTI


Con filo di seta e ago, piroettavano le dita di nonna Maria sulla tela da ricamo. Cavalli e cavalieri, Madonne, nature morte di fiori e di frutta. Per le ragazze del Sud era un vanto quel lavoro femminile, lei aveva cassetti pieni di rocchetti di ogni colore e gradazione, “dipingeva” così. La dinastia artistica della famiglia Pignatelli, tutta al maschile, discende, a ben vedere, proprio da quel talento. «Da piccolo, credevo che quei dipinti fatti dalla nonna fossero a olio», ricorda il pittore Ercole Pignatelli, 77 anni, papà di Daniele, Luca e Francesco, tutti artisti. È un padre che porta il codino, con barba e baffi per mantenere l’appeal di bel tenebroso. Ha una verve teatrale mai assopita e gli piace prodursi nelle imitazioni. La più riuscita è quella di lui travestito da Toulouse-Lautrec. Ma la sua segreta vocazione era quella del musicista (si diletta con l’armonica a bocca), passata a Luca, che invece suona la tromba. La conversazione tra loro quattro parte in tutte le direzioni, ciascuno tirando il filo di una propria memoria. Ma subito si ritrovano in quel misterioso luogo della loro infanzia, vero “paese dei balocchi”. Sono ancora tutti qui, in quella torretta, Wunderkammer, all’ultimo piano dell’appartamento che hanno abitato dal 1972 al 1986. Una casa su tre livelli, affittata in via San Martino. «Lassù nella mansarda c’era di tutto: maschere africane, un cesto con armi antiche, un orso impagliato, bombette, reperti archeologici, conchiglie. Anno dopo anno, lì dentro si accumulavano sempre più cose. Questi oggetti per noi sostituivano i giocattoli», ricorda Luca. «Da piccolo, accompagnando papà a Brindisi, scoprimmo un negozio che vendeva accessori d’epoca, ombrellini del ’900 e pagliette che arrivavano da Parigi, ne comprammo un’ottantina». Ma per farne che? «Ah, solo per il piacere di averle», risponde Ercole. Francesco, il “piccolo” della famiglia, ha un preciso ricordo anche delle paure generate da quella baraonda di oggetti. «Prima di andare a letto spesso chiudevo a chiave la porta di accesso al piano superiore, per timore che qualche oggetto si animasse. Si varcava un confine e si entrava nel mondo di un immaginario illimitato, anche un po’ inquietante. Io mi sentivo minuscolo in quella stanza». Era tutta colpa sua se il padre Ercole, che spesso rimaneva in studio fino a notte fonda con gli amici (come Dino Buzzati e Mario Soldati), si ritrovava blindato dentro.

Cranio di elefante. In quell’atmosfera di anarchia, i compagni di classe venivano volentieri a giocare, come a un Luna Park. Nell’ingresso dell’appartamento c’era un enorme cranio di elefante (regalo del poeta Raffaele Carrieri) che compare anche nel primo cortometraggio di Daniele, girato in casa. «Era un teatro di posa già allestito», dice. La madre Carla, psicologa, figura concreta, cercava invano d’imbrigliare i figli con delle regole. Il grido «È pronto! Tutti a tavola!» veniva disatteso per primo dal marito, e poi dai figli. «Papà non scendeva finché non aveva finito di dipingere, magari anche tre ore dopo. Il nostro poi era un ammutinamento continuo», dice Daniele. Famiglia patriarcale da sempre, questa dei Pignatelli. A cominciare dal nonno Ercole, medico condotto a Lecce, rispettatissimo. I paesani li curava gratis (ma poi piovevano agnelli, olio, caciotte…), mentre i nobili del luogo saldavano il conto. «Il nonno pranzava solo dopo aver terminato le visite, a volte ci si metteva a tavola anche alle cinque del pomeriggio. Senza di lui non si poteva pranzare, però si spilluzzicava di nascosto», dice il padre Ercole. «Dei suoi 19 nipoti ero il prediletto, così, ogni sera alle 23, con il nostro gatto al seguito, accompagnavo il nonno al Circolo dei cacciatori, dove lui giocava a zecchinetta. Avevo dieci anni, ero una specie di attendente. C’era un salone pieno di fumo, con i piatti stracolmi di soldi. Per anni ho sempre dormito lì, al circolo, su un’enorme poltrona di pelle. Il cocchiere Armando ci portava a casa alle cinque della mattina (abitavamo in un bel palazzo del ’600). Sulla scrivania il nonno trovava uovo sodo, pomodori e pane. Cenava, leggeva La Gazzetta del Mezzogiorno e poi andava a letto. Dormiva solo due ore e poi si alzava. È morto a 94 anni, ma è come se avesse vissuto il doppio». Luca favoleggia di quell’operazione che il nonno fece, seduta stante, durante una di quelle sue serate al circolo. «Un giocatore fu colpito da peritonite, il nonno lo salvò operandolo subito con un coltello da cucina, sterilizzato col fuoco. Il nonno per studiare medicina dovette superare una prova stomachevole: tenere per cinque minuti le mani in un sacco nero dove c’erano ragni, bisce, scarafaggi, rane, vermi».
Ma c’è sempre uno “strappo” nelle famiglie, e quando Ercole, a 18 anni, decise di lasciare Lecce, per Roma e poi Milano, il nonno gli scrisse una lettera di fuoco accusandolo di “tradimento”, e la buttò in dramma. Ercole arrivò a Milano nel 1953 per vedere la grande mostra di Picasso a Palazzo Reale. Aveva 7.500 lire in tasca per la sopravvivenza. «Roma la trovavo dispersiva, però Guttuso mi aveva accolto bene regalandomi un disegno, da vendere in caso di necessità. Arrivando a Milano non mi ero preoccupato di dove avrei alloggiato, vidi poi sul Corriere della Sera che affittavano per 4mila lire un posto letto in via Formentini, in una stanza da condividere con altre quattro persone. Però lì vicino c’era il bar Jamaica, dove incontravo Quasimodo, Ugo Mulas, Orazio Napoli, Alfa Castaldi».
Pugliese per sempre il padre, pugliesi per sempre i figli milanesi. Nel 1964 Ercole acquistò a rate una proprietà a Porto Selvaggio, Torre Uluzzo nel Salento, dove nella grotta del Cavallo da poco si è scoperto che già 45mila anni fa vivevano i primi sapiens europei. Per Francesco il mese che trascorre lì è il “ritorno alla Natura”. Daniele e Luca parlando di territorio monumentale, ricordano il lungo viaggio di attraversamento geografico, in treno o in auto, con tappa ad Ancona dai parenti della mamma. «Se penso che un mio film è nato osservando una pigna da una finestra del trullo!», dice Daniele. Luca, tipo rabdomantico, girando per le campagne con la sua jeep dell’Armata rossa (regalo del padre), trovò in una masseria un vecchio telone di un treno merci, che subito immaginò di dipingere. Per la sua pittura non doveva più cercare altro.

Territorio della libertà. Crescere in mezzo all’odore pastoso dei colori a olio, quelli del padre ma anche quelli di Fontana o di Guidi che, partendo, lasciavano dall’amico Ercole in via San Martino le loro opere. Nessuno dei figli sa fino a che punto la madre Carla, proprio con il suo atteggiamento ferreo, abbia in realtà favorito quel loro desiderio latente di dedicarsi all’arte. «In casa c’era l’anima anarchica del papà e quella restrittiva della mamma, anche necessaria alla nostra educazione. Ma per me non è stato facile trovare un equilibrio, in casa tutto era una commistione fra vita e arte», confessa Francesco. «Ma è risaputo che gli psicologi in famiglia non funzionano». «Però la mamma si è difesa bene, con cinque maschi in casa, contando anche il cane Cisco», aggiunge Daniele. «Ma è stata vittima di un padre, capitano della Marina, molto rigido. Fu mandata per otto anni in collegio dalle Dame Inglesi. Poi il nonno voleva che studiasse matematica, mentre lei voleva fare psicologia. Si laureò a 38 anni, dopo aver fatto la Bocconi», sottolinea Luca. «Certo, appena lei partiva per i suoi corsi a Padova, papà ci faceva bigiare la scuola. Una pacchia. Diceva: “La scuola uccide la creatività”», ricorda Daniele. Di esuberanza, di sregolatezza, in quella casa ce n’era fin troppa. Il bambino Luca, a 9 anni, si vestiva con paglietta in testa, bastoncino e ghette (un paio gliele regalò la sua insegnante di italiano delle elementari, facendogliele confezionare da un laboratorio teatrale) e così agghindato andava alla fiera di Senigallia (era la mascotte dei rigattieri) in caccia di quei memorabilia militari che ancora oggi sono la sua passione. «Allo Zaccaria, alle elementari, avevo due amici speciali, Giovanni Panza di Biumo e Paolo Rivosecchi. Un giorno con loro, nel cortile della casa di Giovanni, abbiamo trovato e disseppellito delle maschere antigas militari. Insieme poi, ogni mattina compivamo un rito: andare all’obitorio di via Francesco Sforza per vedere il morto del giorno», dice. Rito inquietante, al quale se ne aggiungeva un altro, raccontato dal fratello Daniele. «Luca andava dal macellaio e si faceva dare una quaglia con l’uovo in pancia. Poi, per estrarglielo e metterlo sotto alcol, la operava a casa con il bisturi». Nei suoi tre figli la mamma Carla aveva però scatenato il fatidico senso di colpa: guadagnarsi un lavoro “regolare”, diventare seri professionisti. Così Daniele s’iscrisse alla Bocconi (24 esami, niente tesi) ma di sera seguiva i corsi della scuola di cinema. Luca alla Facoltà di Architettura (molti 30 e lode, ma zero tesi). Francesco alla European business school, con uno stage a Londra. «Ma dopo sei mesi ho piantato lì, e sono rimasto a Londra per due anni, subendo le scenate della mamma. Era il ’92, cominciavo a sperimentare la fotografia analogica, un medium molto immediato e adatto al mio carattere. Dovevo mantenermi da solo (ma papà mi allungava dei soldi). Come maestro di arti marziali trovai lavoro in un negozio di armi. Quel posto mi ricordava lo studio del papà». Racconta Daniele: «Io ho saputo che mio fratello Luca era diventato pittore quando fece la sua prima mostra a Milano nel 1987. Il mio modo di essere regista è stato molto influenzato dall’aver visto in studio da mio padre come nasce un dipinto, dalla prima all’ultima pennellata. Achille Bonito Oliva parla dei miei film come di pittura pellicolare». Piccoli Pignatelli promettono bene. Sono i figli dei tre fratelli. Pietro Ercole, Giulia, Elisa (che disegna), Tommaso Olmo (fa piccole sculture), Filippo Aki, Beatrice (che disegna) e ancora Ercole.

Scavezzacollo. Con la Gilera bicilindrica papà Ercole si sentiva molto divo, molto playboy. Se la comprò con i proventi della vendita (300mila lire) della sua prima mostra (alla Galleria La Bussola di Torino, 1956). Frenò davanti a una vetrina in via Palmieri, a Milano, dove aveva intravisto una biondina (Carla, sua futura moglie). Era il negozio della mamma di lei. Vendevano casalinghi, ma lui entrò in cerca di colori. Dopo quella moto, seguirono tre Guzzi storiche e una Harley Davidson. «Ma le vendetti in blocco quando un giorno vidi Luca, a quindici anni, per strada, in sella alla mia moto».
Francesca Pini