Gian Antonio Stella, Sette 7/12/2012, 7 dicembre 2012
COSÌ LA SPAZZATURA DIVENTA KILLER PER CONTO DELLA CAMORRA
«Io posso sparare, però penso che sono più pericolosi personaggi del genere, che uno che va a sparare…». Dario De Simone, per anni uomo di punta dei Casalesi nel ruolo di sicario, prima di pentirsi e diventare un collaboratore di giustizia, aveva ovviamente buoni motivi per cercare di sgravare un po’ la propria coscienza accusando altri. Nella sua prima vita aveva ucciso una decina di persone. Non deve essere facile convivere con quei ricordi.
È vero però che quelli che hanno ammazzato la Campania Felix, vale a dire la Campania fertile descritta con parole estasiate dai grandi viaggiatori del passato, seppellendola sotto montagne di rifiuti tossici omicidi, hanno ucciso, uccidono e continueranno a uccidere più ancora che i killer armati di mitra o pistola. Hanno infettato a morte una terra stupenda, quei bastardi.
L’ultimo assassinato dal cancro si chiamava Salvatore Simeoli ed è morto la settimana scorsa. Aveva lavorato per anni con Antonio Bruno al Consorzio di Bacino che si occupava della discarica di Pianura. Sono stati nove, i compagni di lavoro di Antonio colpiti da tumore. Cinque se ne sono già andati, gli altri tirano avanti tra chemioterapie, trattamenti farmaceutici, lunghe attese nelle anticamere degli ambulatori ospedalieri, un ricovero ogni tanto…
Antonio è uno dei tanti napoletani, casertani, salernitani colpiti da tumore che hanno scelto di uscire dal ghetto del silenzio e del pudore per affidare il loro dolore all’obiettivo di Diego Barsuglia, il fotografo toscano autore di un duro reportage sul martoriato territorio intorno al capoluogo campano.
Si intitola La terra desolata e mette insieme le immagini delle vittime dello spaventoso assalto camorrista: di qua i campi, i vigneti, le colline, i ruscelli, i laghetti devastati dal pattume tossico, di là le donne e gli uomini attaccati dalla malattia. Un pugno allo stomaco. Che pubblichiamo in anteprima. Perché tutti vedano, perché tutti sappiano.
Business mafioso. Antonio, che «per 22 anni ha lavorato in discarica, ignaro della pericolosità dei rifiuti che, abusivamente, venivano conferiti nelle cave dall’avvocato Cipriano Chianese», non può urlare la sua rabbia: ha un carcinoma alle corde vocali. Chi fosse Chianese, uno di quei personaggi che da sempre tengono i contatti tra la criminalità e la politica, lo ricorda l’ultimo Rapporto Ecomafia di Legambiente attraverso la deposizione ai magistrati di quel Dario De Simone che abbiamo citato, fondamentale per il processo “Spartacus”: «Per quanto riguarda i rifiuti, il clan dei Casalesi per qualcuno che non lo sa è entrato nel business dei rifiuti tra il 1989 e il 1990. In quell’epoca gli imprenditori ci hanno fatto capire il business dell’immondizia, noi prima di quel giorno non sapevamo niente, non sapevamo che con i rifiuti si potevano fare tanti soldi. Ce lo spiegò l’avvocato Chianese, che con le discariche ha guadagnato miliardi, i fratelli Bruscino, Cardiello, Iossa, tutti imprenditori che navigavano in questo ambito».
«Quando noi ce ne siamo accorti», prosegue il pentito, «era un po’ tardi e abbiamo cercato di recuperare il terreno perduto. In due-tre anni di lavoro hanno tirato su tanti soldi. Ci spiegarono che se in una discarica in un giorno arrivano 100 camion di immondizia, l’ultimo è pieno di soldi. I soldi che entravano nelle casse del clan erano davvero molti (pari a quasi 5 miliardi delle vecchie lire, ndr). Servivano per pagare gli affiliati o gli stipendi, che arrivavano fino a 400 milioni di lire al mese». Cioè circa 400mila euro di oggi distribuiti ogni mese tra i pesci piccoli che si occupavano del lavoro più sporco.
I rifiuti del Nord. Gli incassi erano così spropositati, spiega Legambiente, da giustificare anche gli agguati e le sventagliate di mitra: «Dietro la campagna di primavera, durata nove mesi e capeggiata dallo spietato killer Giuseppe Setola (una vera guerra civile con 18 morti, iniziata nel 2008 e conclusa con l’arresto dello stesso Setola, ndr), c’era l’intenzione di coprire l’affare rifiuti».
«Una volta capito come funzionava», si legge ancora nella deposizione dell’ex camorrista, «me ne interessai io per circa due anni e mezzo. I rifiuti arrivano dal Nord, dai depuratori toscani, da Brescia, erano fabbriche industriali di vernici, erano lavanderie industriali, le concerie, arrivava di tutto». Da Padova, Ferrara, Torino, Milano, Varese… «Ma il danno vero lo hanno fatto gli imprenditori alla fine degli anni Settanta, quando noi del clan eravamo dei poveri ignoranti, lo ha fatto l’avvocato Chianese, l’avvocato Iossa che ritiravano il siero dai caseifici e poi lo scaricavano nelle fogne». Il siero dei caseifici delle leggendarie mozzarelle…
È lì che il sicario “pentito” della camorra tira in ballo i “colletti bianchi”, i professionisti della cosiddetta “area grigia”, i politici. Un’associazione capace di fare pagare allo Stato un terreno fino a 24 volte il suo valore: «Le organizzazioni malavitose come la nostra, come qualsiasi altra, non hanno ragione di esistere se non hanno una ramificazione nel tessuto sociale, nella politica, nelle forze dell’ordine, nel mondo imprenditoriale. Io come Dario De Simone mica potevo andare a parlare con la società o quant’altro. Erano gli imprenditori nostri, i politici locali che poi andavano a parlare con i politici che stavano allo stato centrale». Ed è lì che dice quella frase tremenda: «Io posso sparare, però penso che sono più pericolosi…».
87 malati di cancro in 700 metri. «Nel paese di Terzigno, lungo via Carlo Alberto, strada parallela al sito di smaltimento illegale di rifiuti tossici “Cava Ranieri”», scrive Diego Barsuglia nell’introduzione al suo libro fotografico, «in soli 700 metri si registrano 87 malati di cancro». Lo denunciò, un anno e mezzo fa, Il Vesuviano: «Scoppia il caso “tumori” a Terzigno. A rilevare l’alto numero di contagi è una recente indagine coordinata dall’avvocato Maria Rosaria Esposito, assieme ai comitati e ad alcuni cittadini di Terzigno, dalla quale sono emersi numeri agghiaccianti che evidenziano come, nella zona limitrofa alla discarica Cava Ranieri, il 41% degli abitanti è affetto da una malattia tumorale o da patologie similari, con una particolare incidenza nella vicina via Carlo Alberto. Dati allarmanti che segnalano la presenza in media di un tumore in ogni famiglia che abita nei pressi della nota Cava Ranieri nonché numerosi casi di leucemia fulminante».
A raccogliere una enorme massa di dati sono state Rosetta Bianco e alcune sue amiche legate alla parrocchia, su tutte Anna Rachele e Anna Pina. Che per mesi, girando casa per casa, hanno riempito dei quaderni a quadretti componendo un quadro angosciante sulla diffusione dei tumori nelle strade più vicine alla discarica, formalmente legale ma evidentemente utilizzata illegalmente per sversare rifiuti altamente tossici. Risultato: «Un numero impressionante di malattie tumorali (…) concentrate in via Guastaferri, via Carlo Alberto, via Martiri d’Ungheria, via Cavour, via Leonardo da Vinci. Ovvero tra strade e traverse che hanno in comune una sola cosa: sono tutte molto vicine in linea d’aria a Cava Ranieri, un ex sito di stoccaggio rifiuti che il tempo e il degrado hanno trasformato in un laghetto di percolato puzzolente», ha scritto Il Fatto Quotidiano. Spiegando che «in un caseggiato si è raggiunto un drammatico en plein: cinque appartamenti, ognuno con il suo caso di cancro. Potrebbe anche essere una coincidenza, ma vallo a spiegare a chi ci abita».
Al Nord per curarsi. Il nodo è proprio questo: al generosissimo volontariato di Rosetta e delle sue amiche dovrebbe subentrare, in un Paese serio, un lavoro di monitoraggio scientifico. Tanto più dopo la pubblicazione su Avvenire, alcuni mesi fa, di un raggelante rapporto dell’Istituto Nazionale per i tumori Pascale di Napoli, secondo cui negli ultimi vent’anni «in provincia di Napoli (città esclusa) si sono avuti incrementi percentuali del tasso di mortalità per tumore del 47% tra gli uomini e del 40% tra le donne, incrementi che sono stati rispettivamente del 28,4% e del 32,7% anche in provincia di Caserta».
Si trattava, certo, dei picchi massimi in alcune precise località individuate dal responsabile di Epidemiologia del Pascale, Maurizio Montella, in «una quindicina di comuni a sud di Caserta e a nord di Napoli, quasi sempre confinanti tra loro. Più altri due che sono attraversati dal fiume Volturno e dal fiume Sarno». Ma lo studio, spiegando che «il tasso di mortalità per tumore al fegato negli uomini negli ultimi venti anni in provincia di Napoli è salito dal 22,1% al 38%, e in provincia di Caserta dal 22,3% al 26,4%», era allarmatissimo: «Questo eccesso di mortalità, che riguarda anche altre patologie cronico-degenerative, si configura come un grave problema sociale e ambientale, oltre che sanitario, di vasta dimensione e notevole gravità».
Eppure, spiega il dossier di Legambiente, «nonostante ogni anno si scoprano tanti cimiteri dell’ecomafia, che costringono soprattutto giovani della Campania a intraprendere i “viaggi della speranza” verso i reparti di oncologia del Nord Italia per curarsi da patologie tumorali, nella regione dell’ecomafia non esiste un registro tumori. Non c’è. O meglio, esiste un mini-registro curato a partire dal 1995 dall’ex Asl Napoli 4 che riguarda in parte il Napoletano e un altro per la provincia di Salerno».
Urge un registro tumori. La provincia di Napoli, denuncia l’associazione ambientalista, «comprende 92 comuni nei quali vivono oltre tre milioni di persone. Il mini-registro ne copre 35, tutti dell’area nord, per una popolazione di 570.000 abitanti. E ha funzionato fino al 2007, giusto in tempo per “perdersi” l’emergenza del 2008. Per gli altri comuni napoletani, come per l’intera provincia di Caserta, non c’è una sola tabella.
Eppure un’indagine dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Roma e di Pisa, pubblicata sulla rivista Epidemiologia e prevenzione e resa pubblica nel novembre 2011, ha riscontrato come tra gli abitanti della Campania che vivono vicino a rifiuti pericolosi ci siano più morti, malformazioni e maggiore incidenza di tumori della media». Insomma: «Servirebbe un registro dei tumori aggiornato, ma in Campania, regione delle emergenze rifiuti, delle ecomafie, degli sversamenti illegali e dei roghi, il registro ancora non c’è. Nessuna inchiesta, nessuna ipotesi di class action senza registro».
Politica colpevole. Peggio: dopo anni di attesa, finalmente, l’agognato registro che potrebbe consentire di avere un’idea chiara della situazione ha avuto il via libera della Regione. Ma questa ha deciso di assumersi direttamente la responsabilità della compilazione della mappa mettendo ai margini l’Istituto Pascale. Una scelta discutibile: non è stata forse la Regione a perdere per decenni la guerra contro l’emergenza e anzi ad aggravarla con la sua imperizia, le sue timidezze, le sue complicità?
La legge c’è, ma nessuno la applica. Perché di decenni si parla. La prima legge speciale della Campania risale addirittura al 19 novembre 1973. Rileggiamo il titolo? «Finanziamenti regionali per la costruzione, ampliamento e completamento di impianti per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani».
Stanziava 30 miliardi di lire, pari a circa 180 milioni di euro di oggi, per «costruire i necessari inceneritori nel quadro di un piano regionale di cinque anni di localizzazione razionale degli impianti». Indimenticabile l’articolo 9: «Qualora i Comuni o Consorzi non presentino i progetti esecutivi o non completino le opere nei termini stabiliti, provvede direttamente la Regione alla realizzazione degli impianti». Da allora sono trascorsi 39 anni e si sono passati la staffetta 6 presidenti della Repubblica, 11 legislature, 31 governi. E stiamo ancora lì. A scoprire ogni giorno che passa una nuova discarica abusiva, un nuovo pezzo di strada costruito sopra lo sversamento di rifiuti tossici che minano la stabilità e la sicurezza dell’opera, una nuova discarica legale usata illegalmente per liberarsi dei peggiori veleni. Ad ammutolire di spavento nella lettura di dossier come Campania chiama Europa, dove Anna Fava maledice «una distruzione del territorio priva di qualsiasi barlume di ragione: frutteti rigogliosi e campi coltivati trasformati in sterminate distese di ecoballe che si innalzano al cielo alte come piramidi, stringendo nella morsa di un assedio i resti delle antiche masserie contadine; le verdi pianure del Casertano, caratteristiche per l’allevamento delle bufale, mutate in sconfinate colline di rifiuti brulicanti di gabbiani; le falde acquifere di Giugliano avvelenate dai rifiuti tossici che, filtrando attraverso i suoli, hanno contaminato le acque con sostanze cancerogene come il tricloro e il tetracloro etilene».
Maledetta sia la camorra, maledetti gli imprenditori spregiudicati della Padania che hanno scaricato lì i loro liquami omicidi, maledetti quei “colletti bianchi“ che hanno guadagnato somme immense lavorando nella “zona grigia”. Giusta la condanna. Purché restino chiare le responsabilità di tutti indicate dall’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia: «Non può, pertanto, escludersi, anzi si rende ben possibile, il rientro in posizione dominante del soggetto camorra, quale vero e proprio convitato di pietra da cui è impossibile prescindere. Presenza che fa agevolmente e comodamente cedere alla tentazione delle autorità preposte di utilizzarla come alibi per giustificare la loro inefficienza». Un alibi…
Gian Antonio Stella