Simone Porrovecchio, L’Espresso 7/12/2012, 7 dicembre 2012
SILENZIO, PARLA MALICK
[Non dà interviste. Odia i fotografi. Ma qui il grande regista spiega il suo metodo. Tra attori fuori campo e trame metafisiche "Un mulinello di foglie che cadono o una vespa sul soffitto sono più importanti degli attori"] –
Terrence Malick è uno dei grandi enigmi del cinema contemporaneo. La sua reputazione straordinaria si basa su sole sette pellicole girate in 43 anni di carriera. Per fare "The Tree Of Life", la pellicola più recente, con Brad Pitt, Sean Penn e Jessica Chastain, si dice ci abbia messo 35 anni, dalle prime bozze di sceneggiatura al Festival di Cannes 2011. Tra poco, il nuovo film, "To The Wonder", affronta la prova del pubblico nelle sale italiane: quella della critica l’aveva già affrontata a settembre, al festival di Venezia. La pellicola ha provocato applausi e molti fischi, e nessun premio: «Era successo anche con "Tree of life"», ha commentato lui: che però alla fine a Cannes ha vinto la Palma d’Oro.
Ai fischi di Venezia sono seguire critiche discordanti. Secondo il "New York Times", "To The Wonder" è addirittura «un nuovo capolavoro di visioni». La protagonista è l’ucraina Olga Kurylenko, la Bond Girl di "Quantum of Solace". A lei Malick ha affiancato Rachel McAdams e Ben Affleck. Ha tagliato invece tutte le scene di molte altre star: non si vedranno Rachel Weisz, Jessica Chastain e Michael Sheen. Ci sono invece Javier Bardem con una casacca da prete e una comparsata di Romina Mondello. Il tutto raccontato con uno stile inconfondibile che con gli anni si è fatto, se possibile, ancora più sicuro di sé: «Dopo 43 anni di cinema non ho bisogno delle parole», dice il regista. «Tra molte e poche, meglio nessuna. Per quello che voglio raccontare, e visualizzare, mi bastano gli occhi degli attori. Le parole spesso mentono, anche al cinema. Gli occhi invece no». Ne sa qualcosa la Kurylenko. Per una sola scena, il regista l’ha fatta parlare per tre ore e quarantacinque minuti. Senza interruzione. Al montaggio, però, ha tagliato tutto. «Mi ha detto il giorno dopo che gli è bastata una ripresa dei miei occhi di quindici secondi», spiega l’attrice.
Il film è una storia d’amore. Un americano (Affleck) incontra una ragazza ucraina (Kurylenko) a Parigi e le chiede di seguirla in Oklahoma dove però c’è una sua vecchia fiamma (McAdams). Ma in un film di Malick l’amore non basta: ancora una volta è una pellicola su amore e morte. E Dio. E il dubbio. Una storia epica e surreale raccontata attraverso immagini, indelebili. È lo stile di Malick, che descrive così il suo lavoro: «Affondare il coltello nel racconto e ritagliare i momenti essenziali. Ritagliare i personaggi e reinserirli in una tela più ampia. Inquadrare gli attori da dietro, di profilo o fuori campo. Il film si ricostruisce nella mia testa: come ho sempre fatto, ho sempre parlato la stessa lingua». In un film di Malick anche le star devono essere pronte a fare un passo indietro: «Il mulinello di foglie che cadono nel Jardin du Luxembourg o una vespa sul soffitto a volte sono più importanti», spiega il regista. Il responso di Venezia lo ha toccato? «Si tratta anche di stati d’animo. Capita la mattina sbagliata, dove l’umore generale è inclinato. Non è importante. Ciò che conta è quello che si ottiene dagli attori è riuscire a raggiungere il pubblico. Io sono soddiefatto. Il personaggio di Marina interpretato da Olga Kurylenko è molto profondo: l’interpretazione perfetta di una vita in bilico».
Parla più come un filosofo che come un regista, e si capisce il perché: nei vent’anni che separano "Giorni di Gloria" e "The Thin Red Line", Malick ha fatto il produttore, ma soprattutto ha studiato filosofia. E su questa base ha rafforzato il suo stile di «disegnatore di immagini», come ama definirsi. Dopo decenni passati senza rilasciare interviste, ora si lascia anche sfuggire qualcosa su di sé: «Sono un volitivo e un incostante», dichiara lapidario. Come Stanley Kubrick, non ama essere fotografato: «È una scelta che ha a che fare con me, non con il mio lavoro». Sotto ogni punto di vista, comunque, Malick è un cane sciolto, e questo ha fatto nascere intorno a lui un culto che viene rafforzato dalle dichiarazioni di chi lo conosce davvero. Come Ben Affleck che definisce così il suo lavoro in "To the wonder": «Un’esperienza diversa da tutti i set in cui ho lavorato. La sensazione era quella di partecipare a un progetto più ampio di un film, per quanto grande e intenso come questo».
La differenza si nota anche in alcune scelte tecniche. Di norma le cosidette "coverage cameras", telecamere che riprendono la stessa scena da angolazioni diverse, sono posizionate in punti differenti per restituire un’unica scena che assomigli il più possibile alla vita reale. Con Malick nulla di tutto questo. Gli attori recitano le loro scene, ma un riflesso di luce, la cornice di una finestra, o il vento, sono parte del racconto. Non sono l’interpretazione o i dialoghi a interessare Malick, ma l’effetto complessivo della scena, la connessione "epica" tra la recitazione e gli elementi naturali che formano l’ossatura del racconto. Uno stile che Malick aveva in progetto dai tempi dei "Giorni del cielo".
Oggi, anche in una "semplice" storia d’amore, il regista ha dalla sua un linguaggio creato ad arte che riassume la carriera, la filosofia, la storia di un artista fuori dagli schemi. «Pensiamo a Godard e al suo "Pierrot le Fou"», spiega il cineasta. «Era il 1965. Quel film fece il punto della situazione sull’uomo postmoderno. La diagnosi, quarantanni fa, era già impitosa: la spiritualità dell’uomo distrutta dai mass media, e la conseguente nevrosi compensatoria di chi non distingue più il vero dal falso, l’essenziale dal triviale». Sembra una risposta indiretta ai fischi di Venezia: del resto, a difendere il regista ci ha già pensato Peter Bradshaw critico cinematografico del "The Guardian" e numero uno in Inghilterra: «È singolare quello che succede ogni volta a Venezia. Malick si prende reazioni spietate e volgari. I film più insipidi e meno interessanti si dissolvono nei titoli di coda tra silenzio rispettoso e possibilmente applausi. Ma chi è pronto oggi a mettere in discussione i propri schemi e le proprie convinzioni davanti a un film? Chi accetta di ragionare?». Ecco, nei suoi film Malick ragiona. E con i suoi ragionamenti cerca di arrivare a Dio. È quello che ha sempre fatto, fin dal primo film. «Il miracolo», assicura, «non è inventare un nuovo cinema, ma essere coerenti con se stessi. Anche quarant’anni dopo».