Federica Bianchi, L’Espresso 7/12/2012, 7 dicembre 2012
L’IMPORTANZA DI ESSERE BIG
[Nel 2012 sono fallite ogni giorno duecento imprese. A pagare soprattutto arredamento e abbigliamento. Chi ce l’ha fatta insegna: tocca allearsi ai più forti] –
Sembra un secolo. Eppure sono passati soltanto vent’anni da quando Pasquale Natuzzi quotava sulla Borsa di New York quella bottega di divani artigianali che aveva creato nel tacco d’Italia e trasformato rapidamente in grande azienda del made in Italy. Nel 1993 la Natuzzi vantava oltre 3 mila dipendenti soltanto in patria e le business school americane studiavano le strategie di successo di un artigiano che per primo aveva spalancato l’alta moda dell’arredamento alla borghesia americana.
In questi ultimi dieci anni però il mondo è cambiato. Ad Oriente come ad Occidente milioni di senza speranza sono diventati abili produttori e avidi consumatori. Internet ha stravolto modi e tempi di lavoro. I mali italiani - alta tassazione, illegalità e corruzione - hanno finito per divorare il Paese. Così i segreti della Natuzzi di una volta non bastano più. Le vendite sono scivolate, spinte dalla concorrenza estera e dal calo della domanda interna. Degli oltre 3 mila dipendenti italiani ne è rimasto un terzo, di cui la metà è in cassa integrazione.
Dopo quattro anni di crisi, ad essere sotto assedio insieme a Natuzzi è gran parte del tessuto industriale italiano. Con alcune eccezioni, come il produttore di occhiali Luxottica, che in sordina hanno assunto una struttura aziendale più adatta a competere in un mercato globale. E che oggi potrebbero diventare il modello da seguire.
Secondo l’Osservatorio del Cerved, nei primi nove mesi del 2012 sono uscite dal mercato 55mila aziende, una cifra record di questi ultimi dieci anni, circa 200 al giorno. In testa sono le società dei settori dell’arredamento e dell’abbigliamento, due delle quattro "A" per cui l’Italia è famosa nel mondo (le altre sono agroalimentare e automatizzazione, ovvero meccanica).
Anche chi non chiude i battenti non se la passa bene. Secondo la Banca d’Italia un’impresa su tre finirà l’anno in perdita (erano il 23,6 per cento l’anno scorso) e sarà stata costretta a limare la forza lavoro. E sempre un’impresa su tre avrà fatto ricorso alla Cassa integrazione guadagni rispetto a quel 21,8 per cento del 2011. «La sofferenza di oggi è dovuta ad una crisi lunga e sistematica iniziata nel 2008 quando ci sono stati casi di caduta del fatturato anche del 70 per cento», spiega Alessandra Lanza, responsabile della ricerca economica della società di consulenza Prometeia: «Le imprese hanno provato a tenere duro. Nel 2010 avevano recuperato parte del fatturato perso, ma con la ricaduta del 2011 la situazione è diventata insostenibile».
Se l’anno che sta per concludersi è stato terribile, il prossimo, quando molte situazioni in bilico sfoceranno nel fallimento o nella liquidazione, potrebbe rivelarsi infame per un tasso di disoccupazione da record. Il problema è duplice. Gli italiani, impoveriti da salari medio-bassi rispetto ai concittadini europei, non sono più disposti a spendere per acquistare prodotti di qualità. Contemporaneamente le società asiatiche, dopo dieci anni di concorrenza, sono diventate in grado di offrire beni con un ottimo rapporto prezzo/qualità.
Le aziende italiane con meno chance di sopravvivenza sono quelle che si rivolgono al mercato interno con un prodotto di media qualità, più sensibile alla concorrenza internazionale: dalle cucine della Berloni, in concordato fallimentare, ai piatti della Richard Ginori, finita in liquidazione sotto il peso di 70 milioni di euro di debiti. «L’Italia si sta muovendo verso il modello Usa, dove i consumatori spesso non sanno più dire se una camicia è fatta con materiali sintetici o naturali», spiega Lanza. Al contrario, è la nuova borghesia di Pechino e Shanghai, Rio de Janeiro e San Paolo ad apprezzare un abito tagliato a mano o un divano di fattura artigianale, oggetti per cui, dopo decenni di privazioni, sono disposti a investire una buona parte delle loro nuove risorse. Così, a sorpresa, Cina e Brasile sono sempre meno i paesi della produzione a basso costo e sempre più i clienti dell’oggi e del domani, un po’ come erano recentemente i paesi del Sud Europa. «Complessivamente il numero dei consumatori nel mondo è aumentato», spiega Dario Musolini, ricercatore dell’università Bocconi, «ma a differenza di vent’anni fa, quando erano concentrati in Europa e negli Usa, ora si trovano in paesi lontani».
Questa lontananza ha messo in difficoltà il sistema Italia, un paese dove le aziende con meno di 20 addetti sono il 98,2 per cento del totale. I piccoli imprenditori non hanno né la struttura logistica né tantomeno la forza finanziaria necessarie a raggiungere quei consumatori. «E in un momento come il nostro chi non riesce a sfondare all’estero rischia di perdere il patrimonio di competenze acquisito fino ad oggi», sottolinea Musolini. Ad entrare in crisi per primi sono stati i nostri distretti, da quello della ceramica in Emilia, del mobile in Veneto, delle cucine a Pesaro, solo per nominarne alcuni. Con l’affacciarsi della Cina sulla scena economica globale all’inizio degli anni Duemila sono variate le alleanze e le geometrie di scambi e forniture. I grappoli di micro aziende concentrate in uno stesso settore hanno cominciato a sfaldarsi, con aziende alla ricerca di fornitori oltre i confini della propria provincia. Le piccole e medie società che erano maggiormente indebitate si sono ritrovate con conti in caduta libera che le stanno costringendo a chiudere linee di produzione e licenziare personale. Chi resiste si finanzia da solo, attraverso risparmi e utili del passato.
In provincia di Treviso la Panto, la regina degli infissi in legno italiani, che negli anni Novanta andava così bene da consentire al proprietario, Giorgio Panto, di assumere 500 dipendenti e investire in un’azienda televisiva - Antenna Tre - divenuta celebre per il programma "Colpo Grosso", quest’autunno è crollata sotto il peso di 20 milioni di debiti e di una gestione superficiale da parte degli eredi del tycoon veneto. La Franco Tosi, turbine per centrali idroelettriche, venduta nel 2008 agli indiani dopo avere cambiato di mano tre volte negli ultimi 25 anni, barcolla sotto il peso di 80 milioni di debito, di cui la metà verso Equitalia. Il 60 per cento dei dipendenti è in cassa integrazione, così come lo sono gli operai della Sisme di Como, dove i figli di Antonio Costantini hanno deciso di ridurre i costi tagliando gli operai e spostando la produzione di motori per elettrodomestici in Slovacchia e Cina.
Ma c’è anche chi nella crisi intravede un’opportunità e scommette su un modello produttivo diverso, basato su dimensioni aziendali maggiori e diversificazione delle linee di prodotto. Che devono essere almeno due: un’alta gamma lavorata in Italia, offerta soprattutto alla borghesia straniera in cerca di un "bello ben fatto", non necessariamente del lusso, e una medio-bassa, magari prodotta all’estero oppure per conto terzi ("private label") che sostiene il fatturato e tiene sotto controllo i costi.
È il caso dei Colombini, una famiglia di mobilieri di San Marino che nel 2009 ha rilevato nel distretto di Pesaro i due marchi di cucine Fabel e Rossana sull’orlo del fallimento. «Crisi o non crisi avevamo bisogno di solidi nomi italiani con cui approdare nei mercati internazionali», spiega l’amministratore delegato Emmanuel Colombini. La Febal navigava in cattive acque a causa del malgestito passaggio generazionale, uno dei nodi storici delle aziende italiane che sta venendo al pettine in questi anni, a mezzo secolo di distanza dalla loro fondazione. «Alla morte dell’imprenditore poche famiglie hanno avuto la lungimiranza di evitare faide intestine magari affidandosi a un manager esterno», racconta Manuela Marianera, esperta di mercati emergenti del Centro studi di Confindustria.
Per i Colombini la scommessa è riuscire a rilanciare un marchio in decadenza riscrivendone sia i parametri distributivi che le logiche di vendita. «Le cucine, per recuperare identità, in Italia dovrebbero seguire l’esempio della moda, collezioni bi-annuali e negozi monomarca, mentre all’estero sarebbero utili delle alleanze con i big del fashion», spiega Emmanuel. Il sogno è quello di "fare rete", cioè di presentarsi con un sistema moda-arredamento Italia insieme, anche attraverso alleanze tra società. Intanto la famiglia punta a controllare direttamente la distribuzione, esattamente come aveva fatto Luxottica nel 2001: comprando il maggiore distributore nordamericano di occhiali - un prodotto facilmente riproducibile - si era di fatto messa al riparo dai concorrenti asiatici.
Che per competere nel mondo la piccola impresa, per quanto d’eccellenza, non basti più e che l’unione faccia la forza è risaputo, ma le aziende italiane lo stanno capendo soltanto ora, passando attraverso lo stretto di Scilla e Cariddi più difficile della loro esistenza. Perché a detta di molti analisti questa crisi è anche l’occasione per ristrutturare un sistema diventato incapace di competere efficacemente sui mercati mondiali. «Gli italiani hanno salari bassi (rispetto alla media europea) e competenze alte», spiega Lanza: «Ora hanno bisogno di aziende più grandi e forti che non solo raggiungano mercati distanti ma investano in tecnologia e trasferiscano competenze e conoscenze a quelle più piccole, proprio come avveniva negli anni Sessanta- Settanta». L’epoca d’oro del made in Italy.