Carlos Gumpert, L’Espresso 7/12/2012, 7 dicembre 2012
TABUCCHI INEDITO
[Amore e odio. Coraggio e viltà. Ambiguità. Ecco il testo, mai pubblicato, in cui il romanziere scomparso in marzo svela i segreti della sua vita e della letteratura] –
Il protagonista del racconto "Esperidi" incontra su un’isola alcune divinità che incarnano certe ossessioni di Antonio Tabucchi. Il primo è il dio del Rimpianto, che è associato al ricordo, un tema fondamentale della sua narrativa.
«In effetti ho la convinzione che la letteratura sia una specie di memoria. La letteratura, se vogliamo, è una risposta laica alla necessità religiosa dell’uomo. Scrivere implica il desiderio di ricordare, di ricordare persino la propria immaginazione, che ci fa visita per qualche istante e poi svanisce. Se non la memorizziamo, corriamo il rischio che diventi un fantasma. Memoria e scrittura sono un modo di trattenere questi fantasmi che svaniscono tanto rapidamente come compaiono».
La seconda divinità è il dio dell’Odio. In effetti dai suoi racconti sembri che conti molto...
«Penso che al mondo ci siano molte persone detestabili, che ci "emmerdent la vie" quotidianamente con le loro cattiverie e le loro stupidaggini, e sono anche convinto che contro questo tipo di gente si debba reagire: ritengo che sia quasi un dovere delle persone intelligenti».
Il dio dell’Odio è una sorta di nume tutelare del lato oscuro dell’animo umano. Molti suoi personaggi scontano con il rimorso gli errori che hanno commesso, spesso per codardia.
«Forse questo interesse deriva dalla mia passione per un sublime romanzo il cui tema centrale è proprio la codardia, cioè "Lord Jim" di Conrad. Amo esercitare la mia scrittura attraverso le qualità umane che normalmente si considerano negative. I personaggi positivi e trasparenti furono i tipici protagonisti del romanzo del realismo sovietico, uno dei filoni più orrendi dell’ultimo secolo, soprattutto se pensiamo alla grandezza di Dostoevskij o di Gogol e dei loro antieroi».
Il terzo è il dio dell’Amore, un dio bifronte...
«L’amore occupa un posto intermittente nella vita degli uomini, molto intermittente, a seconda dell’età. Adesso, l’ho sentito proprio ieri in televisione, è di moda dire che l’amore è l’aspetto più importante della vita, anche nella terza età. A quanto pare oggigiorno dobbiamo entusiasmarci come adolescenti per amore, qualunque età si abbia. Secondo me non è vero. L’amore comprende diverse sfumature e diverse accezioni. In gioventù si vive in modo molto viscerale, e ciò in parte è dovuto alla sfera erotica, in età matura c’è un altro tipo d’amore e nella vecchiaia un altro ancora».
Magari è stata una certa sociologia a magnificare il concetto di amore.
«La sociologia commette il grave errore di considerare ciò che è relativo come qualcosa di assoluto. Pessoa affermava che al contrario delle invenzioni pratiche, dotate di un valore utilitaristico, e delle invenzioni scientifiche, che possiedono un valore di verità esatta, l’opera d’arte è un’invenzione con valore assoluto. Tanto per intenderci, per comprendere il fenomeno del terrorismo italiano degli anni Settanta, secondo me la lettura di un romanzo come "La vita interiore" di Alberto Moravia risulta molto più chiarificatrice di tutti i numerosi saggi sociologici che sono stati dedicati a questo argomento. Un fenomeno complesso come il terrorismo non si può spiegare solo in termini suscettibili di analisi matematico-statistiche, come il numero dei disoccupati, o la situazione politica. I fattori politici, economici e sociali sono sicuramente importanti, ma ne esistono altri, più reconditi e ambigui perché di ordine spirituale, ideologico o filosofico, quali il malessere esistenziale diffuso in quegli anni o la mancanza di risposta alla ribellione giovanile, che stanno alla radice del problema e sono terreno fertile per la letteratura ma che la sociologia non prende in considerazione».
Torniamo al’amore nella sua narrativa...
«Sì, ha ragione, la sociologia ci ha interrotto. Stavo dicendo che secondo me esistono diversi tipi di amore, secondo le varie stagioni della vita. Quale tra tutti è più interessante dal punto di vista letterario? Probabilmente nessuno, però è importante ciò che li lega, e cioè il fantasma dell’amore: l’amore come desiderio, inquietudine, presenza costante e incorporea capace di nutrire le varie stagioni della vita con sfumature molto diverse».
Forse è proprio per questo che i suoi personaggi sembrano provare con maggior facilità la passione che l’amore.
«Sono sempre stato affascinato da quei personaggi della storia e della letteratura che sono stati capaci di provare grandi passioni. Magari questo interesse per le passioni impetuose rispecchia il mio lato romantico o forse è solo la proiezione di un desiderio, perché mi sarebbe piaciuto essere un uomo passionale e non lo sono. Comunque penso che la passione sia una specie di ubriacatura che consente di accedere a nuove dimensioni della vita. Ho l’impressione che le persone che hanno vissuto grandi passioni abbiano compreso qualcosa in più dell’esistenza, perché seppure nel preciso istante della passione siano state cieche, in seguito hanno acquisito una forma peculiare di lucidità».
A giudicare dai suoi racconti anche i sentimenti positivi possono essere fonte di sofferenza.
«Non credo esista il bianco e il nero, o almeno questo non riguarda la letteratura. Dovere della letteratura è studiare le sfumature, esplorare le zone d’intersezione, i margini ambigui della vita. Non è un espediente letterario ma una caratteristica tipica della vita. Io stesso posso amare e detestare qualcuno con la stessa intensità e persino nello stesso momento, e questo probabilmente è all’origine della mia letteratura».
L’ultimo dio dell’isola non ha nome ma si collega al desiderio di comprendere il mistero dell’esistenza: è il nume che presiede il percorso di molti personaggi dei suoi libri.
«Spesso la letteratura è una grande illusione che ci fa credere nella nostra capacità di aprire una porta e fare una scoperta. In realtà, quando l’atto della scrittura si conclude, ti accorgi che dietro la porta che hai aperto ce n’è un’altra, dietro la quale ce n’è probabilmente un’altra ancora. Insomma, è come una specie di labirinto borgesiano, una serie infinita di porte. Nella letteratura, come forse anche nella vita, ciò che conta non è trovare qualcosa ma cercarlo. L’essenziale è l’ansia della ricerca, è questa che deve stimolare l’uomo, perché finché l’uomo la possiede sarà vivo. I miei personaggi sono ansiosi perché sono vivi, non sono "anime morte", come direbbe Gogol».
Lei ha riconosciuto di non essere una persona con cui è facile convivere: com’è la sua relazione con i suoi personaggi? Mi riferisco a tutti, ma soprattutto a quelli dei romanzi, con i quali è costretto a un contatto prolungato.
«Durante il periodo d’incubazione del romanzo la convivenza è molto piacevole, perché la consapevolezza della nascita di una creatura che prima non esisteva infonde un senso di potere e di paternità che in un certo senso costituisce una specie di felicità. Questa condizione si prolunga per tutta la fase di costruzione del personaggio, ovvero per quel periodo durante il quale l’autore lo inventa e lo custodisce dentro di sé, cullandolo. Poi le cose cambiano, perché quando il personaggio acquisisce una sua completa fisionomia può diventare talmente forte da imporsi sul suo autore. Questo mi è capitato con alcuni dei miei ultimi libri. A volte i personaggi tornano, saltando da un libro all’altro. E se sentono la necessità di evadere dal carcere in cui li ho rinchiusi, e cioè il libro, non me la sento di negare loro l’orizzonte di un altro romanzo».
E quando accade il contrario? Sente nostalgia per i personaggi dai quali è riuscito a separarsi e che quindi non sono più riapparsi, come quelli dei primi romanzi?
«Certamente, è inevitabile. I personaggi sono come persone in carne e ossa, e perciò lo scrittore che li crea ha l’impressione di conoscerli. Anche se conviverci può essere stato difficile, hanno fatto parte della mia vita e ora fanno parte dei miei ricordi, e questo ovviamente presuppone una certa nostalgia. Anche se molti dei miei personaggi non sono tornati a comparire nei miei libri, questo non significa che la loro storia sia definitivamente conclusa. Non scarto assolutamente l’ipotesi che prima o poi possano tornare. Come dicevo prima, non riesco mai a separarmi completamente da loro e loro continuano a vivere dentro di me. Se fossi sdraiato sul lettino di uno psicanalista gli direi: "Vede, dottore, ci sono dei fantasmi che mi ossessionano". Questi fantasmi sono i miei personaggi, naturalmente; che mi ossessionano, è vero, ma che probabilmente mi tengono anche compagnia».
Oltre a ignorare quasi tutto sul passato di questi personaggi, i suoi lettori non sanno molto neppure delle loro caratteristiche fisiche, perché la maggior parte delle volte lei non li descrive. Ma almeno lei lo sa come sono?
«Certo, certo, naturalmente. Io so perfettamente come sono. Però, secondo me, certe descrizioni dei personaggi ormai sono inutili a causa di tutte le tonnellate di pagine contenenti esposizioni di questo tipo già presenti in letteratura. Se leggiamo Balzac, Manzoni o Pérez Galdós, per prima cosa scopriamo che il tal signore è grasso o magro, che ha un certo naso, che porta gli occhiali, che è calvo e via dicendo. Forse la cosa migliore è lasciare tutto ciò all’immaginazione, come accade nella poesia o nel teatro, dove quasi mai i personaggi sono descritti. D’altra parte come descrivere Faust o Mefistofele? Goethe non li descrive, e il lettore se li immagina. Come descrivere Amleto? Ce lo figuriamo grasso e flaccido oppure un ragazzo inquieto con il viso arrossato dall’ansia e dalla nevrosi? O forse malinconico e con lo sguardo assente? Lo possiamo immaginare come vogliamo. Questo tipo di letteratura, che lascia spazio all’immaginazione del lettore, è la mia preferita, perché possiede un enorme potere di suggestione».
Proprio perché sta sempre in compagnia dei suoi personaggi, si dice che lo scrittore sia per natura un essere solitario e che per di più cerchi la solitudine per lasciare spazio a questa relazione con le sue creature. È questo il suo caso?
«Io credo di essere una persona piena di contraddizioni, e una di queste mie contraddizioni è proprio che sono un solitario che odia la solitudine. Non tollero di stare completamente solo, preferisco avere la sensazione che pur essendo solo in caso di bisogno ci sia qualcuno a portata di mano. Non potrei mai fare l’eremita né vivere in un luogo totalmente isolato. Ho paura della solitudine totale perché favorisce l’apparizione di certi fantasmi, di alcune manie, di turbamenti, che è meglio mantenere a distanza perché altrimenti rischiamo che ci catturino e poi è difficile liberarsene. Eppure mi rendo conto di aver assolutamente bisogno di stare solo per leggere, riflettere o scriver e. La solitudine mi piace, però mi fa anche paura. Per esempio, per me uno dei peggiori momenti di solitudine è la notte, perché soffro d’insonnia. La sensazione di sentirmi da solo di notte è una delle più spiacevoli: il mondo è fermo, tutti dormono e la solitudine in quel momento è assoluta, che tu sia davvero solo oppure no, perché comunque non puoi certo svegliare qualcuno o chiamarlo al telefono in piena notte. Non puoi far nulla, solo sentirti solo. In generale la scrittura può costituire un rifugio e una compagnia, ma in momenti come questi diventa una vera e propria ancora di salvezza. Una risorsa estrema, non una libera scelta».