Davide Giacalone, Libero 6/12/2012, 6 dicembre 2012
TRA NAPOLITANO E INGROIA A PERDERE È LA GIUSTIZIA
[La decisione della Consulta salva l’uomo del Colle, punisce le toghe d’assalto e dà ragione a chi denuncia la commistione tra diritto e politica] – Potrebbe essere chiamata «sentenza perfetta». Nel senso che la decisione della Corte costituzionale (con la quale si boccia la procura di Palermo e si accoglie il ricorso del Quirinale, quindi s’indirizzano le intercettazioni telefoniche in questione verso la distruzione) porta a compimento e maturazione non uno, ma più processi degenerativi della giustizia italiana. Nella «tempesta perfetta» tutti gli elementi meteorologici sfavorevoli si danno appuntamento. Nella «sentenza perfetta» si sono effettivamente incontrati. Per meglio apprezzarli vanno divisi.
1. L’Associazione nazionale magistrati ci ha provato, ma già il tentativo racconta il proprio fallimento: la sentenza, hanno detto, non deve essere letta in modo politico, o di contrasto con la procura palermitana. A parte che il contrasto era nelle cose, a parte che i palermitani ce la mettono tutta per amplificarlo, perché il sindacato dei magistrati sente il bisogno di dire che la lettura non deve essere politica? Risulta anche a loro che, almeno in certi casi, la lettura politica è pertinente? In ogni caso, l’opinione di un barbuto magistrato combattente, direttamente gestore delle indagini, quindi autore del misfatto, oggi operante in Guatemala, non lascia alcun margine al dubbio: «La politica ha prevalso sul diritto». E, per non essere frainteso, ha aggiunto che non solo rifarebbe esattamente quel che ha fatto, ma che la scelta del Colle di ricorrere ai dirimpettai è da considerarsi un grave danno per le istituzioni.
Il primo punto, quindi, è la ribellione vivace dei magistrati direttamente coinvolti, che accusano il presidente della Repubblica di avere attentato alle istituzioni (uno dei pochi casi per i quali non è irresponsabile e può essere perseguito), e accusano la Corte d’essersi resa autrice di una sentenza politica. Posto che queste non sono divergenze d’opinioni, ma pesantissime accuse, in un Paese appena decente sarebbe chiaro che: o hanno ragione, e s’incrimina il presidente, o hanno torto, e li si butta fuori dalla magistratura.
2. La cosa singolare è che tanto pesanti invettive non erano adeguatamente «valorizzate», dai giornali e dalla comunicazione di ieri. Ai bei tempi, quando certi pronunciamenti togati avevano un solo bersaglio, con quelle accorate parole, con quegli ultimi rantoli dei servitori del diritto, si sarebbero aperte le prime pagine. Ieri, invece, andavano in catenacci e occhielli, se non direttamente nelle pagine interne. Siccome, però, Freud non è passato invano, il titolo più gettonato, ieri, era: ha vinto Napolitano. Il che, lo si lasci dire a noi che non abbiamo mai concorso al ruolo di commessi dattilografi, cui tanti quirinalisti anelano, non è esatto, perché quando il ricorso fu presentato proprio il Colle sostenne di farlo in nome e per conto delle prerogative presidenziali. Il che aveva un fondamento. Sicché oggi, a volere stare alle parole presidenziali, non è ascrivibile alcuna vittoria a una persona specifica. Ma, si sa, nulla è più fastidioso dei servitori troppo zelanti, incapaci di trattenersi innanzi all’ovvio: ha vinto. Così com’è ovvio che giocava in casa.
Al coretto di ieri si sottrae il più quotato foglio dei giustizialisti, il Fatto, che chiarisce il concetto: «Una Corte cortigiana ». La foga titolatrice ricorda i bei tempi delle leggi che si supponeva servissero a salvare Berlusconi & C., difatti si discetta di un’invenzione costituzionale, pur di dare ragione al Quirinale. Gliecché quando questo si diceva di Berlusconi la valle giornalistica restituiva un eco frizzante e polidirezionale, mentre ora sembra che parlino nell’ovatta. E gli é anche che le leggi berlusconiche non salvarono nessuno degli accoliti, aggiungendo la figuraccia avvocatesca al danno, mentre qui il colpo va a segno. Dritto al centro e senza sbavature. Altro che «lodo Schifani » o «lodo Alfano», qui si vince con lode.
Il problema logico del fronte giustizialista, però, è il seguente: se le sentenze non si possono mai criticare, se quando io scrivo che questa o quella decisione di un tribunale è una boiata (che da cittadino sono tenuto a rispettare, ma non ad adorare), mi capita di rileggere centro volte che staremmo «delegittimando» la magistratura, la giustizia, la Costituzione, la mamma e non so che altro, loro, che stanno facendo?
Certo, la Corte costituzionale non è un tribunale, i giudici non sono di carriera e non sono iscritti all’Anm. Ma l’obiezione casca subito, perché i giustizialisti contestano eccome le sentenze (ad esempio della Cassazione), considerandole immonde concessioni al crimine e alla corruzione, se solo non ci trovano scritto quel che di notte sognano.
Sicché, infine, ecco trovato un aspetto positivo della sentenza costituzionale: non fidatevi dei giustizialisti, sono tutti convinti che il «diritto» sia un pugno.
3. Altri aspetti positivi, in quella sentenza, non ne troverete. Come suol dirsi: aspettiamo le motivazioni. Nell’attesa, però, ripassiamo la Costituzione: il presidente della Repubblica non ha alcuna immunità specifica, semmai è irresponsabile, e solo per gli atti relativi all’esercizio delle sue funzioni. Ne scrisse impareggiabilmente Costantino Mortati: per le altre cose è perseguibile eccome, semmai esiste una causa di sospensione del procedimento, ma non immunità. Allora, se il presidente non lo si può intercettare incidentalmente, in cosa la sua posizione è diversa da quella di altri soggetti, dotati d’immunità? Leggeremo le motivazioni.
In quanto alla distruzione di tutte le intercettazioni, al solo udire la sua voce, anche su questo non sono del tutto convinto. Nel mondo dei giustizialisti esistono solo le accuse e il sistema per dimostrarle, ma nel mondo del diritto le cose stanno in modo diverso: se sono accusato ingiustamente e un poliziotto, o un magistrato, o non so chi, parlando con il presidente, gli spiega come hanno fatto a incastrarmi e fregarmi, dobbiamo distruggere tutto? Leggeremo le motivazioni.
4. Non dimenticate in quale contesto è nato il problema: l’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Spero che la lezione sia stata chiara, e spero che anche al Colle abbiano il coraggio di dire quel che dovrebbero avere imparato: se si fanno inchieste elastiche, passibili di allargarsi a qualsiasi contesto, spiegazione e motivazione, se s’indaga su una trattativa e manco si sa quando, fra chi, per cosa, va a finire che puoi coinvolgere, fregare e infangare chi ti pare. Ed è capitato anche all’uomo del Colle.
Quella roba è cominciata in modo sbagliato. È continuata pendendo dalle labbra di un Ciancimino qualsiasi (e quando noi documentavamo che stava raccontando balle ci dicevano: vuoi coprire il losco, salvo poi prendere atto che trattasi di sontuoso fregnacciaro). E rischia di andare a finire senza finire, vale a dire senza sentenza ma con il pubblico ministero che ha istruito la commedia che ne trae le conclusioni per i fatti suoi, in uno dei due libri che scrive alla settimana, senza per questo trascurare il lavoro (la mia è tutta invidia, ma ci metto più io a leggerli che lui a scriverli).
Ecco, in questa roba, a un certo punto, c’è anche che Forza Italia nacque per favorire la trattativa, se non direttamente per soddisfare l’impellente esigenza della disonorata società, ovvero quella di avere un partito tutto per sé. E mi annoia anche solo ripetere quel che abbiamo cento volte spiegato: ove mai quella trattativa vi fu, il prezzo del patto scellerato fu pagato prima del 1994: presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro; presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi; ministro della giustizia Giovanni Conso. Per la storia.
Ecco perché si tratta di una «sentenza perfetta», perché a furia di lasciar decadere la giustizia, a furia di lasciare le procure in balia dei teoremi, a furia d’allevare procuratori che ambiscono a riscrivere la storia e, già che ci sono, anche il futuro, va a finire che tutte le follie confluiscono in un punto. Nella sentenza perfetta.