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 2012  dicembre 06 Giovedì calendario

VITA (E MIRACOLI) DI SELENE, CHE A 30 ANNI HA INSEGNATO L’ABC A 4 MILA BAMBINI DEL MONDO


La guardi e pensi che l’Italia è una batteria di pentole da cui evaporano canovacci. «Certo, un canovaccio da insegnare e poi ci sono le marionette, ma anche i fumetti, le leggende, i testi sacri…». Ma il coraggio da dove lo prende? Selene Biffi, nata sotto il segno del Leone 30 anni fa, dice che lo prende dall’insoddisfazione e allora capisci che a Kabul farà innamorare i talebani come Sherazade, e che si siederanno ad ascoltare in estasi questa piccola donna di Mezzago, brianzola, senza la stazza dell’Omero del «cunto» mediterraneo di Mimmo Cuticchio o dei ditirambi di Vincenzo Pirrotta. Si farà silenzio adagio; gli uomini violenti le cadranno ai piedi e i pugni saranno carezze.
E però bisogna venirla a cercare fino a Nuova Delhi questa principessa, dove l’odore dell’India è adesso confuso dai pc, dagli ingegneri, e ha perso quel fascino che faceva innamorare Alberto Moravia ed Elsa Morante. In una stanza d’albergo, alla vigilia di una serata dove sarà celebrato il suo coraggio e il suo «genio», ci sono trent’anni di donna e un biglietto aereo che la porta a Kabul per «insegnare» dice, anzi per fare la sua «Storyteller school». «Ma non puoi farlo in Cina? Magari in un posto più tranquillo?» le chiesero gli amici. E lei: «Ma via, la tranquillità non esiste da nessuna parte».
Per la Rolex, che l’ha appena scelta tra migliaia di concorrenti al prestigioso Rolex award for enterprise young laureates, una sorta di palio delle più belle speranze in giro per il mondo, il tempo appartiene a Selene. E quando senti la sua storia pensi che stiano investendo sul miglior orologio che è rappresentato dal cuore di questa ragazza italiana, la prima tra gli italiani a essere premiata. Di suo, Selene, ci ha messo un progetto pensato proprio in Afghanistan, nel 2009, sotto le bombe di un attentato, quando vennero evacuati gli uomini delle ong e dell’Onu. C’era anche Selene «embedded» accanto ai caschi e alle tute mimetiche. Solo che lei dopo l’attentato tornò a Kabul, e ci ritornerà da sola pure in marzo, il mese in cui gli americani la lasceranno insieme ai fiori di loto, alle foto dei compagni caduti: Kabul come Saigon.
Una volta la vide Renzo Rosso, il patron della Diesel dei jeans, su un palco a illustrare alcuni fumetti in lingua afghana, il dari. Li aveva immaginati per i bambini afghani, per insegnare loro che scrivere e leggere è un’ode a Maometto. Appena scese dal palco, Rosso le si avvicinò e le disse: «Sai che c’è? I soldi che ti servono te li do io». Le diede 15 mila euro attraverso la sua organizzazione. Peccato che Selene avesse fatto di meglio a 22 anni e con 150 euro in tasca. «Ero stanca di vedermi chiudere le porte in faccia. Presi tutto quello che avevo e creai la mia prima ong, Youth action for change, che finora ha insegnato a 4 mila studenti in 130 paesi».
Come se non fosse laureata alla Bocconi in economia, come se non avesse vinto un master a Dublino e uno a Harvard in gestioni delle operazioni umanitarie; come se non avesse lavorato all’Onu, fatto parte come giovane leader al World economic forum e poi ancora lavorato al ministero dello Sviluppo economico («Mi occupavo di start-up a vocazione sociale fino a pochi mesi fa nella task force del ministro Corrado Passera»). E invece nella sua vita sono più importanti le pentole: «Vengo da una famiglia normale. I miei hanno un ingrosso di pentole. Ma da loro ho imparato che, al di là di tutto ciò che può essere definito materialità, c’è qualcosa di più importante: la responsabilità. Ho imparato da loro, che oltre 30 anni fa sono venuti in India a Jalimpur, una bidonville fuori da Varanasi, per costruire un ospedale, un asilo e una scuola elementare. Da allora hanno offerto quasi 12 mila euro tra visite e interventi e la scuola ha fatto studiare centinaia di bambini. Entrambi lo hanno fatto senza clamore».
Quando le chiedi dei fondi, ti disegna un sorriso. «I miei genitori hanno fatto tutto quello che hanno fatto con il frutto del loro lavoro, destinando a quello parte del proprio guadagno. Insomma, due persone normali che a un certo punto, avendone la possibilità, hanno pensato che fosse giusto aiutare chi opportunità non ne ha avute. E se vedeste l’ospedale… è stato costruito a regola d’arte, rispecchiando le teorie sullo sviluppo locale». Anche la sua scuola a Kabul avrà regole, anzi non chiamatele così. «Grazie al sostegno della Rolex, insegneremo tre materie e saremo in due, chi mi affiancherà è una afghana che mi aiuterà con la traduzione e la logistica. In gennaio inizieremo a coinvolgere altri docenti. Partiremo con l’inglese, prima con la “community development” e poi con lo storytelling, che a sua volta comprende la parte tradizionale, quella creativa e quella recitata».
Tre mesi per iniziare. «Al quarto avremo gli esami e distribuiremo 20 borse di studio ai ragazzi che parteciperanno e che avranno tra i 18 e i 25 anni». E chissà come sarà l’Afghanistan quando Selene tornerà. Ci pensa un attimo e vai a sapere dove lo trova quell’aggettivo, «volatile», che le esce dalle labbra. «Lo immagino come l’Italia all’epoca dei comuni. Non regni in lotta tra di loro, ma tribù che hanno zone d’influenza. Proprio per questo è assolutamente necessario non solo assicurare la parità di sesso, ma cercare di coinvolgere il maggior numero di tribù possibile. Del resto, che cos’è la tradizione se non qualcosa che accorpa, riunisce?».
Viene da chiedersi: ma questa ragazza che cosa si è messa in testa? «Io sono una giovane donna, straniera, ma sono lì per un progetto culturale. Voglio ritrovare parte della loro storia. Sarò forse ingenua, ma io spero che questo progetto possa diventare una piccola leva che possa produrre un cambiamento. È proprio quando tutto sembra non funzionare che il recupero culturale è una chiave di volta. Solo i folli possono pensare che il progetto possa rivoluzionare il paese, ma perché non provare?».
E chi l’ha detto che la cultura deve essere il cespite di stato? Con Selene la cultura non è più la sgradevole frase «con la cultura non si mangia», ma non è neppure quella materia lasciata nelle mani di intellettuali avvizziti e inaciditi dalla vanità. «Il problema» dice «non è che con la cultura non si mangi, semmai che la cultura non venga valorizzata in una certa maniera. Ecco, è importante riuscire a instillare un senso di appartenenza, non ricreare quel senso di dipendenza dagli aiuti umanitari che è stata la grande tragedia di questo settore. Per me è importante sapere che dopo il 2014 il progetto sia portato avanti. Se ci dovesse essere ancora bisogno di me significherebbe che io il mio lavoro lo sto facendo male. Ho creato una dipendenza di abilità».
Li chiamano cervelli in fuga, ma Selene detesta le etichette del piagnisteo italico. E sorride: «Mah, cervello... Diciamo un quasi cervello in fuga. Alla fine sono soltanto una facilitatrice. Facilito». Chi aveva pensato che facilitare fosse un mestiere? Facilitano i ponti, le forchette, un paio d’occhiali, una lingua. Poi arrivarono le pentole e la guerra venne cucinata in teatro tra un verso e un altro. Anche a Kabul si sollevano i coperchi e il racconto inizia: «C’era una volta Selene…».