Michele Ainis, Corriere della Sera 06/12/2012, 6 dicembre 2012
UNA SENTENZA TANTE LEZIONI
Il giorno dopo la pronunzia con cui la Corte costituzionale ha deciso il conflitto tra Quirinale e Procura di Palermo, possiamo forse ragionarne a mente fredda. È giusto farlo, anche se gli animi rimangono bollenti, nonostante il gelo dell’inverno. E anche se finora abbiamo in mano mezza sentenza (mancano infatti le motivazioni, che ne costituiranno la parte più significativa), sicché è possibile abbozzare soltanto una mezza riflessione.
Ma è quanto basta per situare il verdetto che ha reso la Consulta su tre dimensioni: giuridica, politica, istituzionale.
In primo luogo, quindi, i dubbi del diritto. Che chiamano in causa le immunità da cui è protetto il presidente, la possibilità d’intercettarlo sia pure casualmente, il destino processuale dell’intercettazione. Qui s’apre una pagina bianca nel librone delle leggi, perché l’unica regola concerne gli ascolti autorizzati in seguito all’impeachment del capo dello Stato. Nel silenzio della legge, la procura riteneva che la loro eliminazione passasse attraverso le formalità dell’udienza stralcio; il Quirinale ne reclamava l’immediata distruzione. La Consulta ha dato torto alla prima e ragione al secondo, considerando applicabile in tale circostanza l’articolo 271 del codice di procedura penale, posto a presidio del segreto professionale (quello dell’avvocato, del medico, del sacerdote).
Questi i fatti di causa; ma dai fatti discende una lezione, o forse un intero corso di lezioni. Primo: nel diritto non esistono lacune, quando s’immerga lo sguardo dentro la forza pervasiva dei principi costituzionali. Secondo: non è la Costituzione che va interpretata in relazione al codice di rito, bensì il contrario. Terzo: se il capo dello Stato — a differenza dei parlamentari e dei ministri — è irresponsabile (art. 90 della Carta), la sua tutela non può che raggiungere la massima espansione. Quarto: ma per garantirla ciascuno deve restare al proprio posto, senza invadere i territori altrui. Ecco perché è stata bocciata la pretesa dei giudici di valutare la rilevanza penale delle intercettazioni: semmai questa valutazione spetta al Parlamento.
E c’è poi la dimensione politica della decisione, dove risuona per l’appunto l’accusa di Ingroia: «sentenza politica». Toh, la stessa reazione che infiammò a suo tempo Silvio Berlusconi, quando venne bocciato il lodo Alfano. Peccato che ogni sentenza sia politica, anche quelle scritte dal tribunale di Palermo. Perché nelle questioni di diritto non è mai possibile elidere del tutto i margini di discrezionalità interpretativa. Perché ogni giudice — come osservava Temistocle Martines — con le sue pronunzie partecipa al governo della polis. E perché infine la Consulta è un organo a cavallo fra politica e diritto, altrimenti non si comprenderebbe come mai un terzo dei suoi membri vengano scelti dalle Camere. Peraltro in questo caso il verdetto è stato unanime: giudici costituzionali di destra e di sinistra, giustizialisti e garantisti, laici e togati. Siccome per Ingroia avrebbero deciso in base a una comune ragione di partito, significa che lui si considera un partito.
E le istituzioni? Vince la Consulta, non foss’altro che per i tempi record del suo deliberato: quattro mesi, quando a un immigrato tocca aspettarne il doppio, per intascare il permesso di soggiorno. Ma vince, soprattutto, Giorgio Napolitano. Nell’eclissi della seconda Repubblica, durante questa lunga crisi che attanaglia la politica, due poteri hanno fin qui riempito il vuoto: i garanti delle regole, il Quirinale e la magistratura. In qualche modo, questo conflitto era anche una sfida a duello fra i superstiti. Sopravvive, con pieno vigore, solo il primo; ma lascia un’eredità ingombrante al proprio successore.
Michele Ainis