Carlo Verdone, Vanity Fair 5/12/2012, 5 dicembre 2012
DIECI DOMANDE PER JIM
«Billa, ti ho preparato una serie di domande per Catfish...».
Carlo Verdone a quel punto molla un foglio a Margherita Buy, che deve intervistare un vecchio amico di Jimi Hendrix, con lui qualche giorno prima della sua morte, il 18 settembre 1970 al Samarkand Hotel di Londra. Ma, mentre lei lo riprende con la telecamera, scollega per sbaglio l’audio proprio quando Catfish sta rivelando la verità sulla misteriosa fine. Segue incazzatura di Verdone, e con lui la nostra, noi che vent’anni fa stavamo guardando Maledetto il giorno che t’ho incontrato. E non sapremo mai la verità.
Mai? Mentre si celebrano i 70 anni dalla nascita di Hendrix, Verdone ha preparato una serie di domande per Leon, 64 anni, fratello minore di Jimi, che ha appena pubblicato in Italia la biografia Jimi Hendrix, Mio fratello (Skira, pagg. 288, € 18,50). Le ha mandate via email. Noi le faremo a Leon, e abbiamo giurato che accenderemo il registratore. Ne accendiamo due, per sicurezza.
Suo padre, una volta da me intervistato a Milano, ricordò l’incontro di Jimi con Eric Clapton, a cena, in un ristorante a Londra. Jimi era molto emozionato perché lo considerava il migliore. Ma anche Clapton era molto emozionato. E a un cameriere che non credeva ai suoi occhi di dover servire due leggende, Clapton disse: «Vedi, di fronte a me c’è il più grande di tutti!». Ricorda qualcosa del rapporto tra Clapton e Jimi? Ve ne ha mai parlato in famiglia?
«Non solo si stimavano, ma erano buoni amici. Non mi ha mai parlato di questo aneddoto, tuttavia so un’altra storia. Clapton gli aveva comprato una Fender Stratocaster arancione, per mancini, e Jimi gli aveva promesso che con quella avrebbero suonato insieme. Ma morì una settimana prima di quell’incontro. Clapton ne rimase traumatizzato».
Ho sempre sentito dire che Jimi non dava una grande importanza al denaro. E si dice che girasse con tanti dollari in tasca arrotolati in modo confuso. Ma che ogni volta che tornava in America il suo primo pensiero era quello di fare dei regali alla famiglia. Ricorda questa generosità?
«Era molto legato a noi: quando tornava a casa telefonava sempre e avvisava del suo arrivo. E sì, era molto generoso, con i primi soldi ci ha comprato un nuovo furgone, una casa e una macchina per migliaia di dollari. I soldi non gli sono mai importati, era una persona umile. Era come Michelangelo quando dipingeva la Cappella Sistina e aveva bisogno solo di pane e vino. Peccato che per questo suo disinteresse sia stato anche derubato dai suoi manager...».
Credo che Jimi avesse due ben distinti lati caratteriali: la furia, la rabbia creativa sperimentale e una dolce malinconia piena di poesia. A riascoltare la sua produzione, dal secondo album Axis: Bold As Love, brani come Little Wing, Castles Made Of Sand, per tornare alla più vecchia The Wind Cries Mary e alla più recente Angel mi sembra che ne esca fuori un uomo dal temperamento molto dolce, mite e contemplativo. È d’accordo con me che nell’animo Jimi aveva un candore poetico e malinconico?
«Certo, Jimi era un poeta prima che un musicista. Non voleva più suonare Foxy Lady a un certo punto, ma la gente voleva Foxy Lady e i suoi manager volevano Foxy Lady, perché gli faceva fare un sacco di soldi. Però lui ha scritto roba che parlava di pianeti, dell’Universo, di Dio, degli angeli, di alieni. La sua musica però è talmente potente e forte che la gente si concentrava su quella e non sui testi».
Quali interessi aveva Jimi al di fuori della musica? Leggeva? E quali libri? Amava la Pop Art di quegli anni?
«Non gli ho mai visto leggere un libro, né andare a una mostra. Ad alcuni sembra strano che, non leggendo mai, sapesse scrivere dei testi ispirati. Il fatto è che tutto lo stimolava, dalle stelle alle cameriere, era connesso a qualcosa di superiore».
Se dovesse dare una definizione di suo fratello con poche sincere parole, come lo descriverebbe?
«Era un angelo mandato da Dio, un regalo per l’umanità intera».
Se dovesse scegliere tre brani di Jimi che le sono rimasti nel cuore, quali sceglierebbe e perché?
«Castles Made Of Sand perché parla di tutta la nostra famiglia in una canzone. Il primo verso descrive le continue litigate tra mia madre e mio padre e la decisione, alla fine, di lei, di andarsene. Il secondo parla di me, che gioco agli indiani, e ricorda anche le storie che raccontava mia nonna – siamo mezzi cherokee. Il terzo si riferisce all’ultima volta che abbiamo visto viva mia madre, era su una sedia a rotelle, in una stanza buia (Lucille Hendrix morì in ospedale di cirrosi epatica nel 1958, ndr). Poi direi Voodoo Child e Angel, perché parlano di pianeti e visite da altri spazi».
Jimi ha avuto un maestro nell’imparare a suonare la chitarra, o è stato totalmente autodidatta?
«Del tutto autodidatta, ascoltava la musica e la suonava».
Qual è secondo lei il lato del carattere di Jimi che il pubblico non ha mai conosciuto?
«Amava la musica ma anche lo sport. Giocava a football in una squadra di Seattle e si allenava anche a baseball. Facevamo molte cose per tenerci occupati ed evitare di tornare a casa (Leon Hendrix descrive nel libro il difficile rapporto dei figli con il padre Joe Hendrix, ndr). Poi iniziò a suonare la chitarra dopo aver visto in Tv il duo “Mickey & Sylvia”, che nel 1957 cantava Love Is Strange».
È d’accordo con chi definisce Hendrix anche un grandissimo compositore? Basta ascoltare le versioni jazz arrangiate da Gil Evans per capire che la sua musica aveva una forte connotazione jazzistica.
«Certo. Un noto violinista inglese, Kennedy, è venuto a suonare a Seattle dopo aver trasformato le parti di chitarra di Jimi in parti di violino, violoncello e altri archi. La gente è andata in visibilio: ha dimostrato che Jimi era un vero maestro».
Il tempo, al telefono con Leon Hendrix, è scaduto. Ma noi vorremmo essere Margherita Buy.
Ultima domanda: che idea si è fatto della notte in cui è morto suo fratello?
«È una domanda difficile». Pausa. «Non credo né che sia stato un suicidio né un incidente – non è morto a causa dei farmaci, nel referto del coroner si dice infatti che Jimi non ne aveva in corpo. I suoi amici mi hanno sempre detto che il management lo voleva morto: in effetti, appena incontrai Michael Jeffery, pensai da subito che fosse un bugiardo sospetto. Non so se sarebbe arrivato a tanto, ma sicuramente stava cercando di spremere Jimi come un limone. Purtroppo non esistono prove della verità... Cerco di non pensarci, ora voglio solo che Jimi viva attraverso la sua musica. Non vado nemmeno mai al cimitero a trovarlo, perché è solo un luogo simbolico... Lui non è lì. He’s in the air».