Mariangela Mianiti, Vanity Fair 5/12/2012, 5 dicembre 2012
HAI VISTO, PAPA’, COME SONO STATO BRAVO?
The king of cashmere vive in un castello vicino a Perugia. Il suo regno si chiama Solomeo, non ha sudditi ma collaboratori, ha conquistato il mondo con il filato del lusso, ama Socrate, Platone, Francesco d’Assisi. Da povero è diventato ricco, ma non ha chiuso il tesoro in un forziere, lo divide con la sua gente. È una favola? No. È la storia di Brunello Cucinelli e della sua azienda, nata nel 1978 da un’intuizione, i maglioni di cashmere colorati. Oggi la B.C Spa ha 783 dipendenti, negozi nel mondo, un fatturato di circa 250 milioni e dalla primavera scorsa è quotata in Borsa, uno sbarco che ha prodotto un utile netto di oltre 17 milioni di euro.
Cucinelli, 59 anni, sposato con Federica, due figlie, Camilla e Carolina di 29 e 20 anni, è anche un moderno mecenate. Ha reso Solomeo, paese di origine della moglie, da borgo cadente a gioiello del recupero. Prima il castello, sede del suo quartier generale, poi la chiesa, Villa Adriana, strade, case, piazze e ora l’antica locanda, tutto è stato restaurato con materiali e tecniche tradizionali. E ha costruito anche un teatro. Per tutto ciò e per il suo impegno nel sostenere la cultura umanistica, nel 2010 l’Università di Perugia gli ha conferito la laurea honoris causa in Filosofia ed Etica delle relazioni. E pensare che fino a 25 anni non sapeva che fare da grande.
Da che famiglia proviene?
«Semplice e molto dignitosa. I miei erano contadini mezzadri. Fino al 1967 siamo vissuti in una casa, a Castel Rigone dove sono nato, senza luce né acqua. La mattina andavo a scuola a piedi. La sera mia madre mi leggeva I Nibelunghi, Ludovico Ariosto. D’estate c’erano le feste del raccolto, della mietitura. In casa si era in 13 fra nonni, zii e cugini e la vita era faticosa, ma bella perché rispettosa della natura e dei suoi ritmi. Quando mio babbo fu assunto come operaio, ci trasferimmo vicino a Perugia e lì scoprii due cose fondamentali».
Quali?
«Mio padre, che lavorava in una fabbrica di cemento armato, non si lamentava né della durezza del lavoro, né dello
stipendio, ma di essere spesso offeso dalla proprietà. Tornava a casa con gli occhi lucidi e lo sentivo dire a mamma: “Che ho fatto per essere così umiliato?”. Capii che qualunque cosa avessi fatto nella vita, sarebbe stata per la dignità dell’uomo. Ma anch’io sentivo una grande differenza con gli altri».
Cioè?
«Venivo dalla campagna, non vestivo alla moda e gli altri mi prendevano in giro, ci trattavano da contadini. Anch’io, come mio padre, mi sono sentito umiliato. Quando, dopo due anni, ho imparato a vestirmi, mi sono sentito più sicuro».
Era già sensibile all’abbigliamento?
«La moda mi è sempre piaciuta. A dieci anni mia madre mi regalò un paio di pantaloni di fustagno verde. Li trovavo orribili e li sotterrai in un campo».
Come andava a scuola?
«Male: geometra con il 6 politico. Sapevo che non avrei fatto quel mestiere».
Così si iscrive a Ingegneria, ma dà un esame in tre anni. Non si sentiva in colpa?
«Cercavo la mia strada. Ero il terzo figlio, il signorino, quello che non lavorava. Sognavo di diventare ingegnere, scienziato, sacerdote. E andavo al bar».
Scusi?
«Sì, al bar Gigino, la mia università. La sera ci si trovava in 60, 70, tutti uomini, di tutti i ceti sociali. Si discuteva di tutto, politica, scienza, matematica, filosofia, economia, storia, donne, religioni. È stato un amico del bar a farmi scoprire Kant e la filosofia. Tornavo a casa alle 7, quando mio padre usciva. Lui scuoteva la testa e diceva: “Mah, chissà che mi diventerà ’sto figlio”».
Non faceva neanche un lavoretto?
«Mai, tranne tre giorni ad aiutare mio fratello idraulico. Mi ustionai una mano con un tubo appena saldato. Lui mi disse: “Questo si chiama svegliacoglioni” e io non ci andai più. Ho fatto solo il modello per una ditta qui vicino. È lì che ho imparato come funziona un’azienda. Io sfilavo davanti ai compratori e sentivo parlare di ordini, prezzi, sconti, spedizioni. Ascoltavo. Mi è tornato utile».
Quando Federica, allora sua fidanzata, aprì un negozio di abbigliamento.
«Sì. Mi avevano colpito i maglioni di shetland colorati di Benetton. In Umbria c’è sempre stata una grande tradizione di maglieria, così io pensai di fare la stessa cosa, ma con il cashmere: bisognava lanciarsi in prodotti di alta qualità. Feci confezionare sei pullover di colore naturale, li portai al tintore per tingerli di vari colori. Lui disse che ero matto, che li avrei rovinati, io insistetti. Vennero benissimo e partii per Bolzano alla ricerca di un compratore».
Perché Bolzano?
«Pagavano subito. Arrivai da Franz Alber dicendogli che era il mio nuovo campionario e che avevo un’aziendina con 72 persone. Mi ordinò 50 maglioni. Mi sentii Alessandro Magno. Gli Alber sono ancora nostri clienti. Da lì è cominciato tutto. Imbustavo e fatturavo tutto da solo. Se qualcuno chiamava per degli ordini io cambiavo voce e fingevo di passare il magazzino, la segreteria».
Lei si spende molto per una nuova cultura di impresa...
«Io credo in un capitalismo umanistico. Un’impresa deve fare profitto, se no muore. Ma credo anche che i profitti si debbano perseguire con etica, dignità e morale, puntando al bene della collettività. Oggi con Internet si può sapere come vivi, che cosa fai, che proprietà hai. Devi essere credibile e, per essere tale, essere vero. Un buon imprenditore non si sente proprietario, ma buon custode di un’azienda che continuerà dopo di lui e non necessariamente con i figli. Si ereditano i patrimoni, non le imprese».
Come tratta i suoi dipendenti?
«Si arriva alle 8 senza timbrare, pausa dalle 13 alle 14.30, chi abita vicino può tornare a casa a mangiare, stacco obbligato alle 18: la gente deve avere tempo per sé, la casa e la famiglia».
E gli stipendi?
«Qualcosa in più dei 1.200 euro consueti. Faccio un esempio. Un nostro maglione esce dalla fabbrica a 350 euro, è venduto in via della Spiga a 1.000, di manufatto ne costa 60, ma io ne riconosco al lavoratore 80 perché è giusto e necessario. Potrebbero farlo in tanti, si potrebbe essere meno egoisti. Si potrebbero anche detassare i salari più bassi».
È vero che prima di Natale darete un bonus di 5 milioni ai dipendenti?
«Un dono personale della nostra famiglia, non degli altri azionisti. Essendo stato un anno speciale anche per il successo in Borsa, volevamo condividere i risultati con le persone che sono cresciute con noi a livello etico, sociale e morale».
Non lo avete fatto per evitare che i lavoratori andassero a un’assemblea della Cgil e magari si iscrivessero al sindacato?
«Quando la Cgil mi ha chiesto uno spazio ho dato il teatro, se la riunione è andata deserta, non è colpa mia. Mi sentirei umiliato se qualcuno pensasse che posso dire a 783 persone di non andare a una riunione sindacale».
Non ha nulla contro i sindacati, dunque?
«Assolutamente no».
La sua idea di impresa si espanderà?
«Ne sono certo perché vedo un futuro bellissimo. Sono d’accordo con Obama quando dice che per l’America il periodo migliore deve ancora venire. Anche per l’Europa e l’Italia è così. I popoli che nel mondo si stanno arricchendo sono affascinati dalla nostra storia, l’arte, lo stile di vita. I nuovi ricchi ben presto arriveranno a comprare i nostri manufatti e a vedere il nostro modo di vivere. Questo periodo assomiglia all’inizio del Rinascimento, quando i mercanti portarono dall’America patate, mais e pomodori, rompendo gli equilibri».
Quanto impiega la mattina a scegliere che cosa indossare?
«Un’oretta. Mi piace mettermi le creme, scegliere la sfumatura della pochette, del maglione. Presentarsi bene è segno di rispetto per gli altri. L’ho imparato da mio padre».
A proposito, su di lei ha cambiato idea?
«Sì. Un anno fa, mentre potava le rose, mi ha detto: “Mah, mi sembri proprio un brav’uomo”».