Andrea Malaguti, La Stampa 6/12/2012, 6 dicembre 2012
LOACH: È PIÙ IMPORTANTE IL LAVORO DEI PREMI
[Il regista: la destra uccide in fretta, il centrosinistra lentamente] –
Musica. Titoli di coda.
La parte degli angeli (premio della giuria a Cannes, in sala dal 13 dicembre) è appena finito quando Ken Loach entra nella sala romana del Quattro Fontane. Boato. Applausi. È sottile come una betulla, piccolo, il naso a punta e due occhi da druido. Un ecosocialista rigoroso nato per illuminare gli angoli sudici del pianeta. Meglio se britannici, preferibilmente del nord. Botte, alcol, case popolari. Questa volta ha scelto una chiave più leggera. La storia di quattro emarginati di Glasgow che grazie a una furbata, una distilleria di whisky e una specie di padre buono, rialzano la testa. Tre di loro riescono a immaginare una vita solida, saldamente allineata, pur sapendo che la loro esistenza si è solo fugacemente scontrata con un mondo destinato a rimbalzarli lontano. Il quarto, Robbie, si emancipa davvero. Si ride e si piange molto. «In fondo la commedia è una tragedia con un finale felice».
Signor Loach, le piace il whisky?
«Lo apprezzo. Anche se preferisco il vino rosso. Ma l’idea di farlo diventare uno degli elementi centrali del film è stata di Paul Liverty. I giovani britannici sanno cos’è senza averlo mai bevuto. Costa troppo. Si devono accontentare di sbronzarsi con bevande più povere. Le prospettive per le nuove generazioni non sono un gran che».
Colpa della globalizzazione?
«Anche».
Senza globalizzazione che fine farebbe il mercato del whisky scozzese?
«Il whisky è stato prodotto e commercializzato per centinaia di anni. Forse anche con più fortuna di oggi da piccoli produttori».
Poi?
«Sono arrivate le multinazionali. E un sacco di gente ha perso il lavoro».
Le multinazionali tolgono lavoro?
«Le multinazionali hanno bisogno della disoccupazione. Più gente è a spasso più è facile elargire stipendi da fame e creare lavoro temporaneo».
La precarietà è uno dei motivi della sua polemica col Torino Film Festival.
«Il premio era un onore. Ma c’era una questione di principio sull’esternalizzazione del lavoro al museo».
Che cosa poteva fare il Museo?
«Ribellarsi. Al taglio degli stipendi di chi già guadagna una miseria e ai cinque licenziamenti».
Non erano dipendenti loro.
«Chi pulisce i nostri bagni e assicura la nostra sicurezza è una presenza che ci riguarda».
Lei fa cinema da quasi mezzo secolo, qual è stato il momento peggiore?
«Gli Anni 80, quelli del thatcherismo. Trovare una chiave per raccontarli non era semplice. Ho scelto i documentari. Ne ho fatti sei. 5 sono stati bloccati».
Un pericoloso comunista.
«Scrissero che non ero adatto neppure a regolare il traffico».
Dunque?
«Scelsi il teatro».
Rifugio sicuro.
«Non tanto. Scrissi un testo antisionista per il teatro più progressista di Londra. Una settimana prima dell’esordio la sceneggiatura finì alla comunità ebraica. Mi accusarono di antisemitismo e di razzismo. Bloccato».
Il mondo di oggi come lo racconta?
«Dipende. “La parte degli angeli” è una favola sul talento sprecato e su che cosa può succedere quando la vita ci offre un’occasione».
Si aspetta il lieto fine anche dalla crisi?
«Se guardo alla Gran Bretagna mi preoccupo molto. E pare che la sinistra non esista più. In compenso c’è il centrosinistra, un’assurdità».
Il centrosinistra o la crisi?
«Il centrosinistra. Una cosa che non esiste. La verità è che se il centrodestra ti strangola rapidamente il centrosinistra fa la stessa cosa più lentamente. Ma il risultato è identico».
Che cosa sono destra e sinistra?
«Se sei per il mercato e la deregulation sei di destra. Se credi nella proprietà comune e nella pianificazione condivisa sei di sinistra. Fino a pochi anni fa almeno metà dello Stato era nostro. Oggi non abbiamo più niente».
L’Europa la convince?
«L’Europa prende atto di condizioni di difficoltà oggettiva e risponde con ricette sbagliate, ma è un’organizzazione neoliberista. La vera questione è: come restituiamo fiducia alle nuove generazioni?».
Internet è la soluzione?
«Non lo so. Non credo di essere la persona più adatta a parlarne».
Ci crede al cinema in rete?
«Preferisco il grande schermo. E poi non amo l’idea che l’industria cinematografica finisca per sparire. Nella produzione di un film ci sono un sacco di professionalità coinvolte. Vanno tutelate. Tra l’altro andare al cinema ai ragazzi fa bene, li spinge a uscire di casa».
Ultima cosa. Assange si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoregna e lei ha perso i soldi che aveva versato per garantire i suoi arresti domiciliari. Pentito di averlo aiutato?
«No. Assange va appoggiato. Gli americani lo stanno perseguitando. Una società civile non lo può accettare. Ma il mondo è ancora civile?».