Antonio Scurati, La Stampa 6/12/2012, 6 dicembre 2012
CIECHI NELL’INFERNO DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
A raccontarla oggi, si stenta a credere che la Seconda guerra mondiale sia realmente accaduta.
a conclusione del più grande e terribile evento della storia umana dista da noi 67 anni. Non solo i nostri nonni ma perfino i nostri padri l’hanno vissuto. Eppure, se proviamo a misurare quegli accadimenti sul metro delle nostre vite odierne, sbattiamo contro il muro dell’incommensurabile. L’esperienza di vita delle generazioni nate in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale manca di una base comune a quella della generazione che lo attraversò. Se rileggiamo oggi sullo schermo a cristalli liquidi di un tablet i diari dei nostri nonni sotto le bombe, potremmo legittimamente pensare di non appartenere alla medesima specie umana. Per questo motivo, il merito principale di Inferno. Il mondo in guerra (Neri Pozza, pp. 895, da domani in libreria), di Max Hastings, consiste proprio nell’offrire una narrazione complessiva, analitica, documentata della Seconda guerra mondiale ma incentrata sul vissuto degli uomini e delle donne che vi presero parte. Questo affresco grandioso ci offre, insomma, l’occasione di verificare se sia possibile essere i continuatori dei nostri padri e dei nostri nonni.
«Questo libro parla soprattutto dell’esperienza umana», proclama l’autore nell’incipit. Ovvio – potremmo essere portati a replicare – di cos’altro si può parlare se non dell’esperienza umana? Se ci si cala, però, nel flusso di questo terribile, affascinante, ipnotico racconto, l’ovvietà svanisce. Hastings, consultando una mole enorme di scritture private (diari, lettere, memorie), è andato alla ricerca del significato del conflitto per le persone comuni di molti Paesi, coinvolte in modo attivo o passivo, nei cinque continenti. Seguendolo, si scopre ben presto che in molti casi, per chi lo visse in prima persona, il grande evento non ebbe nessun significato. L’esperienza vissuta – intensa, eccitante e sconvolgente – rimase in seguito quasi sempre memorabile sebbene fosse stata, al momento del suo darsi, cieca a se stessa e priva di senso.
«Volevamo combattere, eravamo eccitati, e volevamo che succedesse in fretta. Non credevamo che potesse capitare qualcosa di brutto». Lo dichiarerà un pilota polacco rievocando l’agosto del 1939, vigilia dell’invasione del suo Paese. Ciò che poi capitò in poche settimane fu lo smembramento della Polonia, la distruzione della sua capitale, lo sterminio di un milione e mezzo di Polacchi e la schiavizzazione dei rimanenti. L’ubriacatura nazionalistica, l’oscurità degli inizi, l’insondabilità dell’inaudito – si dirà. Certo, anche questo. Proviamo, allora, a cambiare scena. Parigi, 22 giugno 1940, una stupefatta ragazza inglese di 19 anni, Rosemary Say, assiste alla parata per la vittoria tedesca: «La macchina da guerra percorreva gli Champs Elysées: cavalli dal pelo lucido, carri armati, macchinari, cannoni, e migliaia e migliaia di soldati. Una processione immacolata, scintillante e apparentemente senza fine (…). I miei amici americani erano come ragazzini: ripetevano ad alta voce i nomi dei diversi reggimenti, gridavano al passaggio dei carri armati più moderni, fischiavano a quei meravigliosi cavalli. Io restavo in silenzio, del tutto consapevole di assistere a un evento storico. Anche così, tuttavia, non provavo grandi emozioni». I nazisti sfilano a Parigi sotto l’arco di trionfo innalzato per Napoleone eppure la giovane Rosemary non rabbrividisce dinanzi agli uomini terribili che presto bombarderanno i suoi parenti in Inghilterra. I suoi amici statunitensi si esaltano, addirittura, alla vista degli armamenti che pochi anni dopo li uccideranno sulle spiagge di Normandia. Il più grande choc culturale dell’età moderna vissuto come spettacolo glamour .
Potremmo continuare a lungo. Il libro di Hastings è zeppo di aneddoti che testimoniano la struggente cecità dell’esperienza riguardo a se stessa. Ampio è lo spettro di questo accecamento. All’estremo opposto della folgorazione abbagliante, troviamo l’ottundersi della vista, l’addensarsi delle ombre, il progressivo sprofondare del mondo in un anti-spettacolo ottenebrante. Nel dicembre del 1943 il canadese Faley Mowat scrive alla famiglia dal fronte del Sangro: «La maledetta verità è che viviamo in due mondi diversi, su piani totalmente diversi, e io in realtà non vi conosco più, conosco solo quelli che eravate. Vorrei riuscire a spiegarvi il disperato senso d’isolamento, del non appartenere più al mio passato, di essere alla deriva in una sorta di spazio alieno». E la tenebra non fa distinzioni tra militari e civili. Poche pagine più avanti, gli fa eco Mihail Sebastian, cittadino romeno che non vide mai il campo di battaglia: «Qualsiasi bilancio personale perde importanza, all’ombra della guerra. La sua terribile presenza è la realtà più immediata. Poi, da qualche parte, lontani, dimenticati perfino da noi stessi, ci siamo noi, con la nostra esistenza sbiadita, rimpicciolita, come in letargo, in attesa di risvegliarci e vivere».
Anche lungo questa linea si potrebbe proseguire all’infinito, sommando frammenti di cieche esperienze personali, brani di vite lacerate e ignote a loro stesse, in un racconto che ci restituisce la vastità della tragedia umana senza mai poter comporre una figura di senso unitaria. È esattamente ciò che fa Hastings. La cosa più interessante di questa operazione di compassionevole, impossibile sutura, è che, a mio modo di vedere, è figlia di un’ideologia dell’esperienza vissuta, a sua volta figlia della Seconda guerra mondiale: la narrazione della storia che «enfatizza il punto di vista e l’esperienza dal basso, la voce dei piccoli piuttosto che dei grandi», la cecità di civili immersi nella nebbia della propaganda o dell’incertezza, la cecità di militari immersi nel caos tattico della guerra post-umana, è probabilmente il più significativo prodotto culturale di quell’immane carneficina.
Fu, infatti, quell’azzeramento dell’umano a inaugurare in Europa una stagione di nuovo umanesimo, nel corso della quale nessuno avrebbe più rinunciato a misurare il senso delle idee e degli eventi sul metro breve dell’esperienza vissuta da ciascuna singola vita. Alle maligne astrazioni anti-umane della «mistica meccanizzata» nazista, delle ideologie totalitarie, delle guerre di materiali, l’Europa postbellica reagì inaugurando ciò che Annette Annette Wieviorka, in un suo saggio del 1998, definì «l’era del testimone», registrando la novità epocale rappresentata dalle centinaia di migliaia di ebrei che in tutti i ghetti della Polonia invasa dai nazisti cominciarono a scrivere, a raccontare, a raccogliere testimonianze «dal basso» e in prima persona, nella consapevolezza che la loro esperienza vissuta si sarebbe storicizzata soltanto attraverso una stenografia quotidiana di ciò che stavano patendo. Molto presto, quel modo di raccontare divenne anche un modo di intendere la vita, la politica e il mondo. «Il popolo dei morti», evocato da Calamandrei durante i lavori dell’Assemblea Costituente – si veda il saggio di Leonardo Paggi sull’argomento – divenne fonte di legittimazione della rinata democrazia europea, fondata sul nuovo diritto alla vita e sull’autorità assoluta che l’esperienza di vita di ciascuno detiene riguardo a se stessa.
Oggi, nel momento in cui la formidabile generazione della ricostruzione postbellica si avvia a esaurire la propria esistenza, la storia europea sembra ancora smottare verso un ciclo di maligne astrazioni e l’autorità della vita vissuta è usurpata dalle fantasmagorie delle merci sfrenate, delle esperienze mediate e della finanza globale. Il culto umanistico dell’esperienza, non a caso, si tecnicizza in una retorica della vita vissuta. Alla testimonianza di chi ha sofferto e vissuto si sostituisce la loquacità di massa dei social media . Il criterio umanistico della tutela della vita non è più minacciato dalla sublime tragedia della storia ma dal suo scadimento a pantomima farsesca.
Per tutti questi motivi, Inferno. Il mondo in guerra , la storia narrata in prima persona degli uomini che prima distrussero e poi ricostruirono l’Europa, la storia dei nostri padri e dei nostri nonni, potrebbe rivelarsi una lettura preziosa. Ci attende forse il loro stesso compito, sebbene le nostre distruzioni rimangano incommensurabili alla loro.