Matteo Bordone, Wired n. 46 12/2012, 5 dicembre 2012
FEDERICO IL GRANDE
[Federico Faggin]
«Prendo gli spaghetti allo scoglio: un classico che non tramonta mai». In due ore di chiacchiere con Federico Faggin, questa è l’unica cosa banale che esce dalla sua bocca. Vicentino, classe 1941, laureato in Fisica all’università di Padova, Faggin è uno dei protagonisti dell’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni. Vive a San José, in California, dal 1968. «Quando siamo arrivati noi, la città era un centro agricolo di 200mila persone», spiega. «Era fuori dal polo tecnologico che era sorto attorno a Palo Alto e Stanford, molto più su. Quell’area in vent’anni ha incorporato San José e non si è più fermata. Ora non si può più fare distinzione: i 6,5 milioni di persone che vivono nella baia di San Francisco sono tutti Silicon Valley».
Se la Silicon Valley si chiama così è per via dei transistor al silicio, e il primo colosso del settore, la vera forza propulsiva di questa industria e di questo territorio alla fine degli anni ’60, si chiama Fairchild Semiconductor. Dopo sei mesi dal suo arrivo negli Stati Uniti, nel laboratorio di ricerca e sviluppo Fairchild, Faggin mette a punto la tecnologia Silicon Gap con porta autoallineante: questo per noi comuni mortali significa poco, ma di fatto si tratta dell’invenzione del microchip. È il 1968. Cinque mesi dopo, un gruppo di persone lascia la Fairchild e fonda la Intel. Faggin resta alla Fairchild e cerca di convincere gli ingegneri a sfruttare la sua tecnologia innovativa, ma con scarsi risultati. «È il fenomeno dell’N.I.H.», spiega. «Not Invented Here: non l’abbiamo fatto noi, noi siamo più intelligenti e non ci fidiamo». Faggin produce e vende 50mila pezzi del Fairchild 3708 usando la linea di fabbricazione del laboratorio, senza una vera produzione industriale. Dopo due anni passa alla Intel.
Il lavoro di Federico alla Intel è storia dell’ingegneria informatica: il 4004 è considerato il primo microchip vero e proprio, e se lo si guarda con una lente di ingrandimento si legge inciso sul circuito "F.F.". Grazie a 4004, 8008, 4040 e 8080 la Sgt (Silicon gate technology) di Faggin diventa lo standard della costruzione di microprocessori. Lo è ancora oggi. «Il primo microprocessore alla Intel», spiega Federico quando gli chiedo di confrontare il 4040 con una Cpu attuale, «è stato fatto tra il 1970 e il 1971. Aveva 2300 transistori, che allora era lo stato dell’arte perché con la tecnologia precedente si potevano mettere 1100 transistori. Funzionava a 750 kHz. Eseguiva un’istruzione ogni 10 microsecondi. I microprocessori di oggi hanno 2,3 miliardi di transistori e 8 processori che lavorano in parallelo. Ciascun processore fa più di una operazione per ogni ciclo, e il clock va a 2,5 GHz. Non solo, ma il primo operava a 4 bit, e quelli di oggi vanno a 64 bit. La differenza è quasi incalcolabile: sarà forse 10 alla 11».
E prima? Prima del primo microchip commerciale, cosa c’era di diverso? «La prima applicazione del microprocessore è stata in una calcolatrice da tavolo con stampante», continua Federico. «In sostanza faceva le stesse operazioni di una calcolatrice di quelle elettromeccaniche, tipo la Olivetti Tetractys. Solo che le faceva più velocemente, costava molto meno ed era più piccola. Quelle elettromeccaniche funzionavano con dei relè, e la parte di calcolo era fatta con camme e leve». Camme e leve. Quest’uomo ha accompagnato la tecnologia dalle calcolatrici elettromeccaniche all’iPhone intasca. Questo ruolo di passaggio tecnologico, culturale e geografico si legge nel suo italiano: non dice «transistor» ma «transistore», come è giusto; non dice «azienda» ma «ditta» come si fa nel Nord italiano da cui proviene, dove l’industria è tutta piccola; ogni tanto, quando si appassiona a un argomento, gli escono espressioni in inglese, e poi l’italiano torna come se niente fosse.
Anche Intel però non crede alle Cpu: il lavoro di Faggin è visto solo come uno strumento per stimolare la vendita delle memorie a semiconduttori, il vero fulcro imprenditoriale dell’azienda. Frustrato, Faggin nel 1974 se ne va e fonda la ZiLOG. Più avanti la strategia di Intel sarebbe cambiata, come sappiamo bene. «L’Intel ha cambiato tune nel 1984», spiega Federico, «quando la competizione nipponica ha sbancato l’industria delle memorie americana. Per fortuna l’Intel aveva anche i microprocessori». Nel 1976 vede la luce lo ZiLOG Z80, un processore che finirà nello ZX Spectrum Sinclair e in mille altre macchine, ancora oggi viene prodotto in centinaia di milioni di pezzi l’anno, e probabilmente fa funzionare due o tre degli elettrodomestici giapponesi che avete in casa.
Dopo ZiLOG, Faggin si butta sul ramo che negli anni’90 e Duemila sarebbe diventato il cardine della nuova esplosione della tecnologia personale: la telefonia. L’azienda si chiama Cygnet Technologies, il prodotto CoSystem. È un telefono che ha rubrica, agenda, registro delle chiamate effettuate, manda messaggi di testo, permette di fare teleconferenze, tutto sulla linea telefonica normale, visto che internet è ancora un miraggio sperimentale. «Molte di quelle cose che sono qui», dice Federico prendendo in mano l’iPhone con cui sto registrando l’intervista, «risalgono a questo prodotto che è stato inventato nel 1984, e che purtroppo non ha avuto successo commerciale». Quello stesso anno l’antitrust americano costringe At&t a scindersi in sette compagnie regionali indipendenti. La società perde il 70 per cento del valore, e quello telefonico diventa subito l’ultimo ramo su cui investire. Con un pareggio fissato a 15mila pezzi, Cygnet Technologies riesce a venderne (anche al Pentagono) un terzo, e viene svenduta. «Succede. Fa parte del gioco. Era avanti per i tempi», dice oggi Federico.
Ma c’è un motivo per cui anche chi non è interessato alla storia dei personal computer ha quotidianamente a che fare con l’ingegno del fisico vicentino. Nel 1986 nasce Synaptics, una piccola "ditta" che si pone l’obiettivo di studiare la più avveniristica branca dell’informatica: le reti neurali artificiali. Le reti neurali artificiali sono dei modelli matematici che, prendendo per esempio il sistema nervoso delle reti neurali biologiche, cercano di sviluppare la dote tipica della conoscenza come la si intende in biologia, cioè la capacità di imparare. Passa del tempo, e la squadra di Synaptics arriva a una conclusione amara: «Praticamente, dopo cinque anni, quello che abbiamo scoperto è che non era possibile avere un’architettura nuova». Mancava, e manca ancora oggi, la conoscenza del meccanismo profondo dell’intelligenza. «L’architettura del computer», continua Federico, «è un’architettura generale per un sistema simbolico. L’unica differenza tra un computer e un altro è che uno può avere più memoria e più velocità, e quindi può fare più cose. Ma in termini di capacità di risolvere problemi, se uno prescinde dal tempo richiesto, un computer è equivalente a un altro».
È forse il primo vero muro incontrato da Faggin nella sua carriera. «A quel punto lì ho dovuto decidere cosa fare», racconta, «visto che la prima direzione ci aveva portati a una specie di vicolo cieco, anche se avevamo imparato un sacco di cose. E allora ho pensato di inventare un dispositivo che sostituisse il trackball, che poi era un mouse rovesciato e non funzionava bene. Le dita sono coperte di grasso, c’è la polvere: dopo un po’ uno muoveva la pallina, e il cursore o stava fermo o scattava. Era uno schifo. Abbiamo studiato un sistema alternativo: il touchpad». Quando Synaptics è a due mesi dalla commercializzazione del proprio touchpad, esce il primo Powerbook con touchpad. È il maggio del 1994. Quella che sembra una disdetta, è una benedizione. Allora Apple ha circa il 4 per cento del mercato ma fa già tendenza, e quando esplode la domanda di touchpad, Synaptics c’è. Un anno dopo anche Apple adotta i sistemi di puntamento Synaptics. Ancora oggi l’azienda ha il 75 per cento del mercato globale di touchpad. Ma il problema irrisolto dell’intelligenza artificiale non è stato accantonato sulla scorta di un trionfo commerciale. Anzi.
Da qualche anno Faggin ha lasciato tutte le cariche dirigenziali che aveva, e oggi il suo vero lavoro è legato alla "Federico and Elvia Faggin Foundation": una organizzazione no profit che promuove lo studio del tema della consapevolezza. È qui che gli occhi del fisico si illuminano davvero: «Il nuovo progetto è nato dal fatto che quando studiavo neuroscienze ho scoperto che non si parla mai di consapevolezza. Si studiano i sensori come oggetti che trasformano l’energia meccanica in energia elettrica, ma poi questo impulso deve essere mappato in una sensazione. E che fenomeno fisico è responsabile della sensazione? Non si sa. Io», dice premendosi un punto sul braccio, «qui sento qualcosa. È la sensazione il mistero, non l’impulso elettrico».
La fondazione finanzia il lavoro di alcuni scienziati che si occupano del tema. «La consapevolezza secondo me è una proprietà. Lo dicono Spinoza o testi come i Veda indiani: nella cosmologia di chi ha sviluppato questi aspetti... chiamiamoli spirituali, la consapevolezza è una proprietà dell’energia base di cui tutto è fatto. C’è l’idea che ci sia un’energia cosmica che è fuori dal tempo, fuori dallo spazio, che è consapevole e dinamica, e questo dinamismo e questa consapevolezza sono inerenti in questa energia. Non c’è riduzionismo, che è una cosa logica della mente umana. Qui siamo prima della logica umana. Uno quindi ha questa natura, una natura base... out of which everything is made: space, time, energy. And the consciousness that we have as beings living in a body».
Ci si aspetta di tutto, ma che l’inventore del microchip illustri una teoria di unificazione cosmica dai campi che ricorda Avatar, per cui spazio, tempo, energia e consapevolezza sono tutte forme della stessa materia, ecco, è una sorpresa. «Io ho avuto esperienze mistiche», continua Faggin, «non legate ad alcunché di straordinario: non ero fuori dall’ordinario né lo era il mio corpo, e non ho fatto niente di particolare per averle». Sono avvenute a caso? «Sì, a caso. In un’esperienza la mia consapevolezza era dovunque. Quindi io avevo la consapevolezza di essere nel mio corpo, ma anche negli alberi, nei prati, fuori. E non sapevo nemmeno che fosse possibile una cosa del genere. Prima di fare queste cose non avevo mai fatto meditazione trascendentale (dopo l’ho fatta). Mio padre era interessato ai mistici, ma a me ’sta roba non interessava mica più di tanto».
«Anzi, una volta ti interessava zero», interviene la moglie Elvia. «Ero completamente ignaro di queste cose. Ma poi, una volta fatta, l’esperienza è un salto quantico in un mondo che è fondamentalmente diverso dal mondo ordinario. Uno che ha sempre visto in bianco e nero a un certo punto vede a colori. E non si può arrivare alla sensazione di rosso, verde o giallo attraverso variazioni del tema della visione in bianco e nero».
Mi chiedo con una certa preoccupazione se non ci sia dietro la religione. «No no, io ero fuori dalla religione!», mi rassicura Federico. «Tuttora non sono religioso. Considero la religione parte del problema, non parte della soluzione». Non cito Matrix per non sembrare irrispettoso, ma mi viene subito in mente quando Federico spiega: «La realtà fisica secondo me è una realtà virtuale, rispetto alla realtà della consapevolezza. La straordinarietà dell’esperienza mistica mi ha detto che l’ordinarietà dell’esperienza normale, che la scienza pensa che sia un prodotto del funzionamento del cervello, è falsa. È come se uno avesse il senso che a essere reale sia quel mondo quasi ideale, quasi fuori dallo spazio-tempo, fuori dalla materialità, e che la sostanza sia l’epifenomeno, invece che the other way around, il contrario». Faggin oggi cerca un supporto scientifico a questa intuizione, e studia questi temi da ventenni: «Non è un colpo di testa», mi dice per togliere di mezzo l’ipotesi del delirio. In effetti, mentre parla di questi temi apparentemente non ortodossi, lo fa con curiosità e impeto, ma senza la minima esaltazione irrazionale.
Il problema effettivo degli elementi che ci mancano per capire come funzioni l’intelligenza riemerge quando si mette a raccontarmi i calcolatori del futuro. «Altro che cervello umano!», si infervora Faggin. «Se uno prende un paramecio, che è un protozoo, una cellula vivente piuttosto grande, di un decimo di millimetro, scopre che si comporta come se fosse un organismo con un sistema nervoso, for Christ’s sake! Il paramecio si muove, aggira gli ostacoli, trova il cibo, e non ha un sistema nervoso. Dal punto di vista dell’interpretazione delle informazioni di quell’oggetto lì, un pezzettino infinitesimo di materia organizzata, non sappiamo nemmeno da dove cominciare per progettare un computer che sappia fare lo stesso. Non abbiamo ancora collegato il fatto che la vita è fondamentalmente informazioni e interpretazione. Pensiamo che sia chimica, biochimica, molecole che si scontrano l’una con l’altra. Quello è the effect and not the cause. La causa sono le informazioni».
Secondo Federico Faggin gli organismi viventi potrebbero incorporare il mistero dei computer del futuro. «C’è il computer classico, un meccanismo puro e semplice: siamo noi che lo interpretiamo, noi che lo programmiamo, e ha zero autonomia. Poi c’è il computer quantico: può operare a 2 alla enne operazioni simultanee, dove enne è il numero di elementi correlati tra loro. Infine c’è il computer cognitivo: impara da solo, viene alterato dall’esperienza, è autonomo. Di questo sappiamo ancora meno».
Ma a questo punto siamo veramente nel mondo delle ipotesi futuribili: «All’inizio la gente non aveva idea che il computer fosse un manipolatore universale di simboli, e che quindi potesse fare tutto ciò che è meccanico. La gente pensava che fosse una calcolatrice. Un computer tradizionale, non importa quanto veloce, potrebbe non darti una risposta in tempo reale, metterci due miliardi d’anni, mentre un computer quantico potrebbe darti la stessa risposta in due ore. Come disse qualcuno, "Quantity is a quality of its own"». Che la quantità sia di per sé una qualità è un concetto discutibile, ma se a esprimerlo è l’uomo che ha cambiato così tante cose mettendo più transistor di tutti in un rettangolino di silicio, non si può proprio dargli torto.