Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 4/12/2012, 4 dicembre 2012
CASO ILVA: IN GIOCO L’INTERA MANIFATTURA DEL SISTEMA ITALIANO
L’onda che si propaga da Taranto ha la forza di investire tutta la manifattura italiana. Nel passaggio più delicato della vicenda Ilva, gli esiti della soluzione concepita dal governo (l’effettiva attuazione del decreto o il suo progressivo svuotamento) andranno a incidere sulla fisiologia profonda del nostro tessuto produttivo. In queste settimane si è ricordato che le dieci milioni di tonnellate di acciaio realizzate a Taranto valgono all’incirca il 40% della produzione totale italiana (formata sia dai prodotti lunghi, sia dai prodotti piani). Una porzione in sé e per sé rilevante, la cui importanza relativa, negli equilibri della nostra industria, è però ancora maggiore se si considerano soltanto i prodotti piani. Paolo Bricco
N ell’acciaieria pugliese, infatti, si fabbricano soltanto questi ultimi: coils, lamiere e nastri. Elementi che finiscono in quasi tutti i nostri beni manufatturieri. Dunque, circoscrivendo la realtà all’insieme dei prodotti piani, la quota riferibile all’acciaieria a cui il governo ha dedicato venerdì il suo decreto sale addirittura al 74 per cento. Una enormità. È anche vero che una parte residuale di prodotti piani viene importata dall’estero. Ecco che, alla fine, l’acciaio di Taranto copre il 67% del consumo effettivo della nostra manifattura. Secondo le stime effettuate da Siderweb, centro studi specializzato in industria primaria, uno stop di Taranto provocherebbe al manifatturiero italiano danni quantificabili, per quanto riguarda solo i coils, in 3 miliardi di euro. Una ipotesi per ora scongiurata. Ma che potrebbe tornare centrale se nelle prossime settimane il decreto sull’Ilva venisse svuotato, se assumesse un profilo di concretezza il conflitto fra pezzi dello Stato (magistratura e governo) o se l’attuale grave debolezza della proprietà (il capostipite Emilio ai domiciliari, il figlio maggiore Nicola anch’egli ai domiciliari e il figlio minore Fabio in contumacia) facesse implodere la situazione. Tre miliardi di euro dovuti a maggiori spese di trasporto e di stoccaggio dei coils importati dall’estero, più l’aggravio degli oneri finanziari. Una somma rilevante, tutta da iscrivere su un ipotetico bilancio consolidato della manifattura italiana, la cui valenza non è puramente economica. Basta osservare il grado di penetrazione quantitativa che l’acciaio tarantino ha nel nostro sistema industriale, per cogliere la strategicità di una sopravvivenza o la drammaticità di una chiusura dell’impianto. Tutti i settori industriali italiani, infatti, si "nutrono" dei coils e delle lamiere tarantine. È fatto con acciaio di Taranto il 25% dell’automotive italiano: non solo le macchine targate Fiat, ma soprattutto i componenti e i sistemi che finiscono montati sulle automobili tedesche francesi, giapponesi e coreane. Il 16% dell’acciaio usato nel comparto dei prodotti in metallo (per esempio i casalinghi). Il 20% delle macchine e degli apparecchi meccanici (sempre il 20% nelle macchine movimento terra e nei trattori). L’8% nella carpenteria pesante. L’8% nelle costruzioni. Il 15% nei tubi. "Soltanto" il 2% della cantieristica navale. Il 4% nel bianco: frigoriferi, elettrodomestici e lavatrici. Automotive, metalmeccanica, grande meccanica, bianco: l’intera dorsale manifatturiera italiana, dunque. Il mantenimento in attività dell’acciaieria dovrebbe dare stabilità a un sistema che rischierebbe di venire scosso in profondità se le cose, a Taranto, tornassero all’improvviso a complicarsi. E, questo, accadrebbe non solo per le imprese che lavorano e trasformano l’acciaio. C’è, infatti, anche il tema della rete dell’acciaio che, in Italia, è costituita da 1.500 fra distributori e centri servizi, contro i 760 della Germania, i 480 della Spagna e i 145 della Francia. «La politica commerciale dell’Ilva - osserva Gianfranco Tosini, capo dell’ufficio studi di Siderweb e docente di economia dello sviluppo alla Cattolica - ha favorito la creazione di una rete composta da pochi grandi distributori e centri servizi e da una miriade di piccoli operatori». Dunque, almeno per adesso, il ripristino di una ipotetica normalità a Taranto dovrebbe evitare una dura selezione fra operatori che spesso sono mono-Ilva e che sarebbero i primi a pagare il conto di un arrivo in forze, sul mercato italiano, di concorrenti stranieri. Subito dietro ai piccoli trader, a pagare, ci sarebbero tutti gli altri. Intendendo per tutti gli altri l’intera manifattura italiana che, con l’acciaio tarantino, soddisfa fra il 4% e il 25% del suo fabbisogno produttivo. Non solo per i sovraccosti industriali. Soprattutto per la dinamica finanziaria. Proprio su questo, sul mercato si avverte un senso di cauta soddisfazione per il decreto sblocca-Taranto. Nelle filiere che adoperano l’acciaio dell’Ilva, infatti, i pagamenti vengano onorati fra i 60 e i 90 giorni. Se la situazione tornasse a ingarbugliarsi e, in Italia, le multinazionali straniere occupassero gli spazi di mercato finora in mano ai Riva, questi tempi si accorcerebbero in maniera significativa. Gli stranieri vogliono essere pagati cash. O, al massimo, a 30 giorni. Al di là del profilo politico-normativo, una vera e propria soluzione industriale a Taranto ridurrebbe la probabilità di una tensione finanziaria in tutta la manifattura del nostro Paese.