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 2012  dicembre 02 Domenica calendario

Quei 67 giorni di follia: cronaca di un’ingiustizia - Due mesi e mezzo di cal­vario. Due mesi e mez­zo di tensione, di infer­no, di delusione, perché al di là di indignate prese di posizione, nulla la politi­ca e il governo hanno fatto perché lo scandalo di un giornali­sta, il terzo nel­la storia d’Ita­lia, non doves­se ripetersi

Quei 67 giorni di follia: cronaca di un’ingiustizia - Due mesi e mezzo di cal­vario. Due mesi e mez­zo di tensione, di infer­no, di delusione, perché al di là di indignate prese di posizione, nulla la politi­ca e il governo hanno fatto perché lo scandalo di un giornali­sta, il terzo nel­la storia d’Ita­lia, non doves­se ripetersi. E invece dal 21 settembre, quando il Giornale ha re­so pubblico il caso Sallusti, solo polemi­che, ipocrisie, e un tentativo di cambiare la legge peggio­re della legge stessa. «Stanno per arrestare il direttore del Giornale », è il titolo di pri­ma pagina del 21 settembre scorso, il gior­no d’inizio del calvario di Alessandro Sallusti: con­dannato a 14 mesi per un ar­ticolo non suo. La levata di scudi è im­mediata. Ordi­ne dei giorna­li­sti e Fnsi lan­ciano un appello, la politica si dice indignata. Il presidente del Senato Renato Schifani, chiama Sallusti, il presidente dei deputati Pdl, Fabrizio Cic­chitto, definisce «lunare» la so­la ipotesi che il direttore di un giornale possa finire in galera. Ma di «lunare» c’è solo la moti­vazio­ne di quella sentenza d’ap­pello che apre a Alessandro Sal­lusti le porte della galera. Sono sette pagine, stringate. In cui in sintesi si dice Sallusti va manda­to in carcere perché è un perico­lo sociale. Ed è un pericolo so­ciale perché scrive, e dunque può reiterare il reato, la diffama­zione. La linea di Sallusti è niti­da, sin dall’inizio:«La classe dei magistrati che ha partorito que­sto obbrobrio abbia il coraggio dicorreggersi o l’impudenza di andare fino in fondo. Non ho pa­ura. Io sono un nulla rispetto al problema in questione», scrive il direttore il 23 settembre. E tre giorni dopo l’obbrobrio si fa sentenza, nonostante il coro di «no» al carcere per un giornali­sta, compresi il ministro di Giu­stizia, Paola Severino, e persi­no il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il 26 settembre, al­le 17 e 50, le agenzie di stampa battono la notizia della vergo­gna: la Cassazione ha confer­mato la condanna a 14 mesi. Ore drammatiche. Sallusti in­contra i suoi giornalisti. Annun­cia di voler lasciare l’incarico di direttore. Scrive, sul Giornale , il 27 settembre: «Non voglio con­cedere nessuna via d’uscita a chi ha partecipato a questa por­cata », e quindi niente trattative per la remissione di querela, niente richiesta di grazia al pre­sidente Napolitano, e niente pe­ne alternative. Le dimissioni da direttore vengono respinte dal­l’editore, Paolo Berlusconi. Sal­lusti torna al suo posto. E scatta il doppio conto alla rovescia: quello personale del direttore, 30 giorni di sospensione della pena prima che diventi esecuti­va; e quello pubblico della poli­tica, che si impegna a modifica­re la legge. Una farsa. Alla Came­ra, l’autore dell’articolo per il quale Sallusti va in galera,l’ono­revole Renato Farina, confessa: «Dreyfus sono io, quel pezzo è mio». Tempo scaduto. Palazzo Madama comincia a muoversi per cambiare la legge ai primi di ottobre. In Commissione Giustizia sfila, attraverso gli emendamenti, l’odio della ca­sta bacchettata dal Giornale per il suo direttore e per i giorna­listi tutti. Si inventano le puni­zioni più balzane: multe esorbi­tanti, persino la radiazione per il giornalista condannato, qua­si peggio del carcere. «La corsa a salvarmi dalla ga­lera per un reato che non ho commesso si sta trasformando in una ipocrita bagarre», chiosa Sallusti già il 7 ottobre. Una luci­dità profetica. Il primo ddl naufraga a me­tà ottobre, i tempi si allun­gano. «È suc­cesso quello che immagi­navo, questi politici sono ipocriti e co­dardi », com­menta Sallu­sti. Il direttore invoca la Pro­cura di notifi­cargli l’ordine di esecuzione della pena, di interrompere lo stillicidio di incertezza. Il Senato si ri­mette in mo­to. Ma la rifor­ma non ha fu­turo. Con vo­to s­egreto pas­sa un emenda­mento della Lega (appog­giato dall’Api di Rutelli) che ripristina il carcere per i giornalisti. «Vi dico che mi fate ridere, fate pena», scrive Sallusti nel suo fondo, il 14 novem­bre. Si emen­da ancora, si esclude il carcere per i direttori ma non per i gior­nalisti. Il testo muore al Senato, il 26 novembre, col voto segre­to. « Dum Romae consulitur Sa­guntum expugnatur », mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata, diceva Tito Livio. E Sallusti è come Sagunto. Arriva l’ordine di carcerazione. Il pro­curatore di Milano, Bruti Libe­rati chiede i domiciliari. «Do­vrei ringraziarlo ma non lo fac­cio, il solo dubbio che qualcu­no mi abbia aperto una corsia preferenziale mi farebbe orro­re », scrive Sallusti. E quando pm milanesi e avvocati si ribel­lano rincara la dose: ci sono 6mila persone nelle mie stesse condizioni, rifiuto i domicilia­ri. Il resto è storia di queste ore: l’arresto in redazione, la fuga annunciata dai domiciliari per protestare. Sallusti è detenuto. Ingiustizia è fatta.