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 2012  dicembre 02 Domenica calendario

PUNITO PER L’ORGOGLIO GIÙ IL CAPPELLO

Basta leggere gli interventi su Twitter per verifica­re che pochi hanno capito la ratio del comporta­mento di Alessandro Sallusti. Perché è stato condannato come un delinquente comune? Perché non ha fatto nulla per evitare 14 mesi di reclusio­ne? Perché si è impegnato a rifiutare gli arresti domicilia­ri? La spiegazione c’è e non può prescindere dalla perso­nalità e dal temperamento del direttore.
Parecchi, in questi due mesi di attesa nervosa degli eventi, mi hanno domandato: ma dove vuole arrivare e cosa vuole ottenere Sallusti? Anzitutto, lui è un taciturno, introverso, testone, orgoglioso: di quelli che si spezzano ma non si piegano. Se ha degli affetti, e ne ha, li nasconde con cura. Espansività, zero. Cordialità, zerovirgola. Ai tempi in cui era direttore responsabile di Libero , e io mi occupavo della linea politico-editoriale, ci parlavamo sì e no mezz’ora al dì. Ci intendevamo al volo: uno sguardo era sufficiente.
Quando Renato Farina ebbe una grana per aver colla­borato (a fin di bene, suppongo) con i servizi segreti e, di conseguenza,dovette dimettersi dall’Ordine (che,nono­stante ciò, lo radiò, come se fosse possibile cacciare uno che non c’è), fui io, dopo essermi consultato con l’allora presidente dei giornalisti lombardi, a chiedere ad Ales­sandro di fargli scrivere degli articoli; non troppi, secon­do le raccomandazioni di Franco Abruzzo, cioè il suddet­to presidente. Lo stesso Farina si scelse uno pseudonimo. Perché questa mia scelta? Betulla è bravissimo e scrive ra­pidamente. Sallusti non era d’accordo, ma cedette alle mie insistenze. L’erro­re f­u quello di far vergare a Fari­na un pezzo sull’aborto, pur es­sendo tutti noi consapevoli che è religiosamente contrario all’interruzione volontaria del­la gravidanza. Egli infatti - an­che se fece una premessa: «esa­gero » (come dire, occhio che sto per scrivere un paradosso)­usò parole di fuoco. Ora, è con­vinzione generale che Sallusti sbagliò a non pubblicare, gior­ni più tardi, la smentita del giu­dice che Renato aveva offeso. Convinzione erronea, perché fondata su un falso: a Libero non giunse mai alcuna smenti­ta in proposito. Si dà il caso che il magistrato in questione aves­se spedito la rettifica all’Ansa, non a Libero . Peccato che noi non fossimo abbonati all’agen­zia di stampa. Da qui in avanti, una serie di equivoci e contrat­tempi.
Si svolge il processo di primo grado. E Sallusti si becca la soli­ta multa, 5.000 euro. Questa è la prassi, e i giornalisti la cono­scono perfettamente, tant’è che la totalità di essi in tribuna­le se la cava così, grazie a un’ap­plicazione morbida della legge (che pure prevede il carcere). Nel processo di secondo gra­do, la pena si trasforma da pecu­niaria in 14 mesi di reclusione. Il dibattimento si svolse a no­stra insaputa e in assenza del­l’avvocato difensore, nella cir­costanza sparito. Motivo per cui nessuno comunicò la sen­tenza a Sallusti, giacché il suo domicilio legale era presso l’av­vocato «latitante».
Quando al direttore comuni­cano che di lì a una settimana il processo sarebbe stato cele­brato in Cassazione, egli cade dalle nuvole. A questo punto Alessandro aveva una carta da giocare per chiudere l’inci­dente senza danni: far sì che il magistrato torinese (il quere­lante) ritirasse la querela. Il quale magistrato era ben di­sposto. Ma, al momento di concludere la trattativa, Sallu­sti si tira indietro: non ci sto, af­fronto il giudizio. Incazzato, gli domando: a che scopo? E lui: dobbiamo co­st­ringere il Parlamento a modi­ficare questa legge assurda, e dimostrare che coloro i quali la interpretano lo fanno non con senso di giustizia, ma, talvolta, con spirito acrimonioso e per colpire qualcuno che magari li ha criticati aspramente. Era persuaso, il direttore, che la po­litica fosse entrata in tribunale facendo fuggire la giustizia. Personalmente la pensavo e la penso in modo diverso, e gli di­cevo: stai calmo, rinuncia ai sa­ni principi, cerca di salvaguar­dare il presente e il futuro tuoi. Consigli inutili. Sallusti, a diffe­renza di me, è coraggioso ai li­miti della temerarietà. Fino a venerdì scorso scommetteva che la sua idea avrebbe vinto. L’ho scongiurato cento volte di non insistere, invano.
Prima si è fidato della Cassa­zione, poi si è fidato del gover­no ( «farà un decreto per cancel­lare la galera»), poi si è fidato del Senato che per due mesi lo ha preso in giro promettendo una nuova legge (affossata). Non c’è stata anima che lo ab­bia aiutato sul serio, anzi. Mol­ta gente- i politici e i gazzettieri - gli ha remato contro, lo ha sfot­tuto, ha negligentemente tra­scurato di valutare i fatti nell’in­tento di farlo apparire come un matto, un velleitario, un pre­suntuoso, un manganellatore su commissione al quale, in fondo,un po’ di prigione avreb­be giovato.
L’accanimento su di lui ha toccato il diapason allorché il procuratore Edmondo Bruti Li­berati ha scritto: arresti domici­liari. Dove? Nella casa in cui Sal­lusti convive con Daniela San­tanchè. Vari scribi si sono scate­nati negli sfottò: ma guarda questo, invece che a San Vitto­re lo «ricoverano» in una reggia con piscina, e via col cattivo gu­sto e la crudeltà. Il direttore è uscito dai gangheri. Con ragio­ne: come si fa a dileggiare un collega in procinto di perdere, in qualche maniera, la libertà per una diffamazione (senza dolo, cioè in buona fede) com­messa sul lavoro? Eppure non mancano gli allocchi che defi­niscono quella dei giornalisti una corporazione, una casta addirittura. Ma se ci scannia­mo l’un l’altro e, peggio, mal­meniamo chi è in disgrazia! Sal­lusti ha dissimulato la sofferen­za provocata dalla prosa sati­reggiante dei cronisti che si de­dicavano a lui, già distrutto da un verdetto, quello della Cassa­zione, che in pratica lo ha dipin­to quale delinquente abituale.
Forse Alessandro si aspetta­va solidarietà, incoraggiamen­to nel continuare la sua batta­glia affinché si eliminasse il car­cere per la nostra casta da stra­pazzo. Sicuramente non si aspettava le beffe dei colleghi, capaci perfino di insinuare che fosse un privilegiato perché avrebbe scontato la pena in una dimora di lusso. Ferito dal­le canzonature, la sua opposi­zione ai domiciliari è diventata ancora più netta, intransigen­te, maniacale. Non che gli pia­cesse essere sbattuto in cella, ma lo preferiva al sospetto di passare per un cittadino favori­to dai giudici, ai quali, vicever­sa, attribuiva ogni proprio gua­io.
Ecco perché ieri è accaduto quanto raccontiamo dettaglia­tamente nelle cronache e in al­tri commenti. Arriva la Digos al Giornale , dove Alessandro ave­va trascorso insonne la notte, gli occhi fissi al soffitto, e se lo portano via, strappato alla sua redazione. Viene accompagna­to nel decantato alloggio. È qui ha avuto un moto di ribellione: voglio che mi conduciate a San Vittore! Si alza e accenna a in­camminarsi verso l’uscita. Lo bloccano. A un centimetro dal­la soglia o un centimetro oltre? Non ero sul posto, non mi pos­so sbilanciare.
Per quel che vale, ho una cer­tezza: non meditava di evade­re, figuriamoci. Sarebbe fuggi­to all’estero durante i due mesi di «quarantena». Voleva la gale­ra. E uno che vuole la galera co­me fa a evadere? È solo un uo­mo tutto d’un pezzo che deside­rava onorare la sconfitta con un atteggiamento risoluto. Da­vanti a te, Alessandro, io che ti ho pregato di non fare il pirla perché ti avrebbero castigato, mi tolgo il cappello. Ti proces­seranno anche per evasione? Tutti noi del Giornale speria­mo in un’assoluzione: uno non evade tra due poliziotti. Sare­mo sempre dalla tua parte.