Marco Bechis, Corriere della Sera 5/12/2012, 5 dicembre 2012
Jorge Rafael Videla, capo della giunta militare argentina dal 1976 al 1981 ha compiuto 87 anni. Sconta l’ergastolo in carcere, niente domiciliari
Jorge Rafael Videla, capo della giunta militare argentina dal 1976 al 1981 ha compiuto 87 anni. Sconta l’ergastolo in carcere, niente domiciliari. La sua vita si consuma dietro le sbarre, un letto singolo, il crocifisso al muro. Qualche mese fa ha confessato ad un giornalista off the record di essere il responsabile dell’uccisione di almeno 7.000 oppositori, ha riconosciuto il furto di molti neonati strappati alle madri dopo il parto, ed ha accusato la classe imprenditoriale di averlo incitato al massacro. «Abbiamo preso la decisione di farli scomparire per non provocare proteste dentro e fuori dal Paese. Ogni scomparsa può essere intesa come un mascheramento, la dissimulazione di una morte». Ma non dice altro. Nessun ex militare ha dato informazioni concrete: luoghi di sepoltura, liste di vittime e di neonati oramai trentenni che le Nonne di Plaza de Mayo stanno ancora cercando. Dopo 35 anni la violenza di quel silenzio si è fatta assordante. Ma Videla è in carcere mentre Pinochet morì nel letto di casa sua. Il fenomeno argentino dei processi e delle condanne per i crimini della dittatura è unico in Sudamerica. Il maxi processo dell’Esma è iniziato una settimana fa a Buenos Aires con la lettura dei 789 nomi delle vittime con indicazione dei tormenti subiti. Ogni giorno 67 ex militari arrivano in tribunale ammanettati. Quattro ambulanze stazionano fuori per chi si sente male, c’è molto da fare perché gli imputati simulano malori per ritardare il dibattimento. All’Esma (Escuela de Mecánica de la Armada) hanno inventato i voli della morte. Oggi è monumento storico e sede di organismi dei diritti umani, luogo di pellegrinaggio internazionale come il Museo dell’Olocausto a Berlino, Treblinka e Birkenau. L’Ammiraglio Massera (detto Comandante Zero, membro della P2) era il capo. Non si dovevano ripetere gli errori cileni con gli stadi pieni ed il ripudio internazionale. Bisognava fare le cose per bene, in silenzio. C’era un Mondiale ‘78 alle porte. Con regolarità settimanale, gli aerei Skyvan partivano dall’aeroporto vicino allo stadio del River Plate. Dopo qualche ora di volo i piloti davano il segnale, il portellone si apriva e gli ufficiali addetti spingevano i corpi addormentati in mare aperto. Tra i 67 imputati c’è Julio Poch, uno di quei piloti. L’altro giorno mostrava alle telecamere un cartello che recitava: «Le accuse che mi rivolgono sono false», era scritto in spagnolo ed in olandese. Poch ha lavorato nella linea aerea Transavia fino a quando lo hanno arrestato tre anni fa. Nel 2007 la Corte di Giustizia decretò l’incostituzionalità delle leggi di amnistia del governo Menem ed oggi i militari sono tutti sotto processo. Erano stati 18 anni di incubo per i parenti delle vittime che incontravano i torturatori per strada; l’impunità che si respirava era insopportabile. Mi dicevo che non sarei mai più riuscito a vivere in quel Paese. Nel luglio 2010 il Tribunale mi invitò a testimoniare e decisi di partire. Era la causa ABO (Atlético, Banco, Olimpo) tre altri famigerati luoghi di tortura. Ne funzionarono più di trecento. Sul volo Milano-Baires mi chiedevo che cosa avrei fatto quando mi sarei trovato di fronte i responsabili del mio sequestro e della scomparsa di migliaia di compagni. Parlare in tribunale non è come dibattere in tv. E arrivò il giorno. Mi accomodai al banco dei testimoni, passando di fronte ai 16 imputati senza guardarli neanche per un istante. Giurai di dire il vero e prima che il pubblico ministero facesse la prima domanda, lo interruppi e rivolgendomi alla Signora presidente del tribunale, chiesi di essere messo alla pari: questi signori potevano forse riconoscermi — anche se il tempo passa per tutti — ma io certamente non avrei potuto farlo perché nel Club Atlético eravamo tutti bendati. Pretesi quindi che quei signori mi fossero indicati per nome. La presidente chiese alle parti se avessero qualcosa in contrario, le parti discussero e acconsentirono a quella mia stravagante richiesta. A quel punto tirai fuori dalla mia tasca un foglio di carta ed una Bic. La signora giudice iniziò a chiamare per nome ognuno dei 16 imputati, io li fissavo severamente e trascrivevo i loro nomi. Leggevo nelle loro facce lo sgomento per quel gioco capovolto: avevano di fronte un ex prigioniero che li stava schedando. Poi, in un silenzio teatrale, piegai il foglio e lo infilai nel taschino. A quel punto mi sentivo sicuro, non temevo più nulla. Fu la prima e l’ultima volta che li guardai in faccia. Il pubblico ministero mi fece la prima domanda e per un’ora e un quarto raccontai la mia vicenda. Il golpe fu preparato con buon anticipo. Ci voleva un po’ d’ordine perché il livello di sindacalizzazione era fuori dal comune per un Paese sudamericano. Il peronismo con uno sciopero era in grado di paralizzare il Paese. La disarticolazione sindacale era fondamentale per l’allargamento degli affari e degli investimenti stranieri, gli italiani erano in prima fila. Già nel 1975, un anno prima del golpe, c’era un tacito accordo tra le gerarchie militari, il mondo dell’impresa e gran parte delle gerarchie ecclesiastiche. Era tale la coesione che la diplomazia si adeguava. In piena dittatura, nell’Ambasciata Italiana di Buenos Aires furono installate delle «bussole» d’accesso comandate a distanza, come quelle che usiamo per entrare in banca, per evitare di dover farsi carico di rifugiati politici. L’ordine da Roma era: «Niente asilo politico». La dittatura finì nel 1983 con le prime libere elezioni. A oggi sono trent’anni di democrazia, il periodo più lungo senza colpi di Stato della corta storia argentina. La democrazia ha bisogno di tempo. Ritornai dopo l’esilio nel 1984. Ricordo l’impressione di un Paese tramortito, ancora pieno di paura, come quando ci si risveglia in aereo e si crede per un istante di essere nel proprio letto. Riabbracciai i compagni sopravvissuti e mi riappropriai lentamente della città. Andai anche a conoscere Jorge Luis Borges. Il suo salotto spoglio, un tavolo, un paio di divani e un’Enciclopedia Britannica incastrata in un mobiletto su misura, nessun quadro ai muri. Era l’appartamento di un cieco. Avevo chiesto di incontrarlo per parlargli di un mio progetto di film tratto da tre suoi racconti. La sera prima sua moglie Maria Kodama glielo aveva letto. Ma la conversazione con lui finì subito perché mi disse di non essere interessato. Nel mio eventuale film volevo si vedesse la sua Biblioteca di Babele in una rete telematica tipo internet che ancora non esisteva. «Non so come sia fatto un televisore, e lei mi parla di strane macchine!», mi rimbrottò. Cambiammo forzatamente discorso e gli raccontai allora della mia esperienza nel Club Atletico. Gli chiesi cosa pensasse di quella sofisticata invenzione argentina che era stata il desaparecido, volevo sentirlo parlare della storia recente del nostro Paese. E dopo una pausa riflessiva ma velocissima, nascosto sotto le sue sopracciglia bianchissime e folte, con l’abilità istintiva di un bambino che sa cambiare gioco, spostò il discorso in un altro Paese, in un’altra epoca e iniziò a parlare della secessione americana, della guerra civile con il suo milione di morti, sapeva tutto dei nordisti e dei sudisti. Mi stava dicendo: «Quella sì che è stata una vera guerra». Quando finalmente mi congedai, non gli diedi la mano. Pensai, giustificandomi: «A un cieco non si dà la mano».