Notizie tratte da: Davide Ciccarese # Il libro nero dell’agricoltura # Ponte alle Grazie 2012 # pp. 268, 14 euro., 4 dicembre 2012
Notizie tratte da: Davide Ciccarese, Il libro nero dell’agricoltura, Ponte alle Grazie 2012, pp. 268, 14 euro
Notizie tratte da: Davide Ciccarese, Il libro nero dell’agricoltura, Ponte alle Grazie 2012, pp. 268, 14 euro.
«Il bue è lento ma la terra ha pazienza» (Antico proverbio cinese)
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«Una generazione coltiva un albero, quella successiva ne gode l’ombra» (Proverbio africano)
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Occupando circa il 70% delle terre emerse, l’agricoltura è la custode del pianeta. (p. 20)
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Oggi sulla Terra ci sono 6,4 miliardi di persone: secondo l’ONU, raggiungeremo i 9 miliardi entro il 2050. […] Nel 1950 il totale degli abitanti era la metà di quello attuale. (p. 21)
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Secondo l’OMS, il 30% dei decessi nel mondo è dovuto al diabete, di cui più del 70% in Paesi in via di sviluppo [Rapporto mondiale dell’OMS sulle malattie non trasmissibili, 1 settembre 2011] (p. 21)
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Paul R. Ehnrlich, nel suo libro sul pericolo della crisi alimentare mondiale, The Population Bomb, ha studiato i consumi delle popolazioni per misurare e pesare il nostro sistema alimentare. Gli Stati Uniti, con solo il 4% della popolazione mondiale, riescono a consumare più di un quinto dell’energia del pianeta. Se prendiamo l’Inghilterra, i consumi medi sono molto più bassi ma, nonostante questo, se tutto il mondo consumasse allo stesso modo servirebbero tre Terre. (p. 21)
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Le piante ibride [RAPPRESENTANO LA] prima grande Rivoluzione verde: nella prima metà del Novecento, per risolvere il problema della fame nel mondo vennero create molte varietà, dette High Yielding Varietis, per massimizzare la produzione. […] Gli OGM […] rappresentano la seconda Rivoluzione verde. (p. 23)
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[…] coltivare quasi esclusivamente poche varietà ibride ha portato a un sostanziale appiattimento della produzione, una specie di impero degli ibridi che minano le basi della biodiversità. Si parla anche del 90% di riduzione della maggior parte delle varietà coltivate [NOTA: per esempio, negli Stati Uniti si è perso il 95% di varietà di mais, il 94% di varietà di pisello, l’86% di varietà di mele e l’81% di varietà di pomodoro (A. Canini, Biodiversità, Carocci editore, Roma, 2010)]. Il vero danno sta nella compromissione della possibilità di migliorare le sementi nel futuro. Se abbiamo a disposizione solo due o tre varietà di pomodoro, non ci sono molti geni diversi a disposizione; con una decina di varietà differenti le possibilità di combinazione sarebbero infinite: […] è la diversità che premia perché nella diversità c’è la risposta all’imprevisto, mentre con l’omologazione e la poca varietà genetica si riduce la capacità di adattamento […]. (p. 24)
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Oggi l’agricoltura è la principale attività per circa 5 miliardi di persone, più o meno il 50% della forza lavoro mondiale. (p. 28)
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I Paesi più agricoli di tutto il mondo […] sono l’Africa, con il 64% di impiegati nel settore primario, l’Asia, con il 61% e il Sud America, con il 24%. Nel resto del mondo le percentuali si riducono di molto: il 15% nell’Europa dell’Est, solo il 7% nell’Europa occidentale e meno del 4% in Canada e Stati Uniti [NOTA: E. Moroni, Le fabbriche degli animali alle origini dell’insicurezza alimentare, Edizioni Cosmopolis, Torino, 2001]. (p. 29)
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[…] Nella regione del Corn Belt esistono campi coltivati a mais talmente vasti che per percorrerli un trattore può impiegare più di una giornata intera [NOTA: Il Corn Belt è una regione agricola nel Midwest degli Stati Uniti in cui, da metà Ottocento, il mais è diventato la coltivazione predominante] (p. 29)
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Tra il XVII e il XIX secolo […] olandesi e belgi furono infatti i primi in Europa a coltivare in maniera intensiva […], utilizzando in modo razionale concimi derivati da ogni tipo di scarto organico. (p. 35)
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L’uso degli escrementi umani in agricoltura divenne una pratica diffusa e tale rimase fino alla fine dell’Ottocento. In Italia questa pratica era già diffusa nel Medioevo, mentre in certe zone della Cina lo è tutt’oggi. (p. 37)
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[…] A fare i primi passi che avrebbero portato alla Rivoluzione verde fu un agronomo italiano, Nazareno Strampelli (1866-1942), che già nel 1905, grazie alle tecniche d’ibridazione, ottenne varietà di frumento resistenti alla ruggine bruna (una malattia fungina tipica di questo cereale), all’allettamento (la pianta si piega su se stessa), e più resistenti all’aumento della temperatura. (p. 39)
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Oggi nel mondo si coltivano quasi esclusivamente: sementi ibride. In sé non hanno niente di male, […]. La perdita della biodiversità, […] è sicuramente uno degli effetti più negativi. […] Gli ibridi, colture ad alto rendimento, hanno sostituito le colture locali (gli ecotipi). L’allarme per la perdita degli ecotipi è stato tale che nel 1974 è nato il Comitato internazionale per le risorse genetiche (IBPGR, International Board for Plant Genetic Resources) per la costituzione di banche del germoplasma, ovvero banche di semi per evitare che le varietà alimentari locali scompaiano. (p. 40)
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La diffusione delle nuove colture fu tale che nel 1970 coprivano già il 15% della superficie coltivata nel Terzo Mondo, nel 1983 la metà, i tre quarti della superficie totale nel 1990. […] Negli anni Cinquanta, agli albori della Rivoluzione verde, un agricoltore occidentale era 7 volte più ricco di un suo omologo in un Paese povero, e nel 1986 lo era 36 volte di più. Fino agli anni Ottanta i Paesi in via di sviluppo esportavano materie prime; in seguito, anche a causa della Rivoluzione verde, divennero importatori, […]. (pp. 40-42)
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Secondo l’OMS, l’avvelenamento da pesticidi provoca la morte di 20.000 persone ogni anno. Agli inizi del Novecento, nelle aziende agricole degli Stati Uniti si spendeva solo il 45% del reddito prodotto dall’azienda in input esterni, ma nel corso dei decenni la tendenza è cambiata di molto e nel 1999 questa percentuale era salita all’80%. (p. 42)
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L’uso dei fertilizzanti dal 1950 a oggi è aumentato da 14 a 140 milioni di tonnellate. Le specie coltivate prima della Rivoluzione verde erano più di 6000; oggi sono 200, e riso, mais e frumento rappresentano da sole il 70%, della produzione agricola mondiale. Il sogno della Rivoluzione verde è però ormai giunto al giro di boa: per decenni la produzione agricola è cresciuta del 3% l’anno, ma ormai la percentuale di resa annuale è in decrescita e si è fermata all’1,5%. (p. 43)
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I concimi di sintesi […] Secondo gli studiosi, l’assorbimento dei concimi non è mai superiore al 50%: il resto viene quindi disperso, sotto forma di nitrati o ammoniaca, direttamente nelle acque sotterranee per lisciviazione oppure in quelle superficiali per scorrimento o drenaggio. (p. 51)
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Nel XX secolo la produzione di nitrati crebbe in maniera esponenziale, passando dai 4 milioni di tonnellate del 1940 ai 150 milioni di tonnellate del 1990. (p. 53)
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L’azoto è uno degli elementi fondamentali per la fertilità del suolo. […] rende le piante verdi e allo stesso tempo ne aumenta la velocità di crescita. Lo si trova infatti nella clorofilla, e per questo motivo, a fronte di una buona quantità di azoto nel suolo, le piante diventano di un bel verde scuro. Un aspetto che viene interpretato subito come buono stato di salute. […] Ma […] troppo azoto ritarda lo sviluppo. […] si hanno alcuni effetti collaterali, […]. L’azoto rende le colture più rigogliose ma, allo stesso tempo, più assetate di acqua e più deboli dal punto, di vista fisiologico. […] Quando la quantità di azoto presente nel terreno sotto forma di azoto nitrico è eccessivamente abbondante e né le piante né i batteri riescono a utilizzarlo, grazie alla permeabilità del suolo raggiunge le falde freatiche e contamina l’acqua. I nitrati in sé non sono tossici, ma lo diventano quando vengono convertiti in nitrito grazie alla saliva del tratto gastrointestinale. Infatti, in ambiente acido, legandosi con le ammine possono trasformarsi in nitrosammine, composti cancerogeni. (pp. 55-57)
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Le sostanze sintetiche non sono velenose a prescindere: la Royal Society of Chemistry afferma che i nitrati possono avere un ruolo attivo nella cura delle gastroenteriti. (pp. 58)
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Anche il fosforo è molto mobile nel suolo. […] una volta utilizzato come fertilizzante viene disperso nell’ambiente, dal momento che le piante non riescono ad assorbirlo tutto. Il fosforo, sotto forma di fosfato, una volta arrivato al mare si deposita sul fondo e l’unico modo in cui può tornare sulla terraferma è tramite gli uccelli, unici vettori di questo prezioso elemento: una piccola parte viene infatti riportata sulla terra grazie al guano degli uccelli che si nutrono di pesce, ricco di fosforo, riparando così molto lentamente il danno da noi causato. (pp. 58-59)
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[…] «maree verdi». È un fenomeno che ben esemplifica l’impatto che possono avere sull’ambiente i fertilizzanti chimici a causa della lisciviazione. La lisciviazione è il fenomeno naturale per cui tutti gli elementi solubili del suolo, per effetto dello scorrimento, vengono trasportati lontano dal punto di origine. Dai campi agricoli è facile che azoto e fosforo (sotto forma di nitrati e fosfati), quando non riescono a essere assorbirti dalle piante, raggiungano il mare, sovralimentando le specie vegetali marine e dando il via al processo noto come eutrofizzazione («buon nutrimento») […]. Negli ambienti acquatici […] aumenta in maniera esponenziale la crescita delle alghe e del plancton, limitando del tutto gli scambi gassosi con l’aria; a causa della morte delle alghe poi diminuisce la quantità di ossigeno e con la fermentazione che ne consegue si liberano gas tossici, esalazioni di ammoniaca, metano e acido solforico. […] In Bretagna […] il fenomeno è particolarmente diffuso […]. L’alga protagonista delle maree verdi è l’Ulva armoricana, e il danno economico nel 2010 ammontava a 1.400.000 euro; in soli 3 anni (2008-2010) la spesa per riparare ai danni è aumentata di 800.000 euro. La Francia è uno tra gli Stati più agricoli dell’Europa e in Bretagna è concentrato il 7% degli allevamenti di suini e polli di tutta la nazione. (pp. 59-60)
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In Cina, sulle spiagge di Quingdao, nella provincia di Shandong, il 25 luglio 2011 la fioritura di alghe ha coperto più di 20.000 chilometri quadrati di costa. Si tratta di Enteromorpha prolifera, una specie di alga conosciuta in Cina con il nome volgare di Tai-tiao, […]. Le alghe non presentano alcuna tossicità, ma consumando l’ossigeno rendono le aree marine in cui si presentano delle «zone morte». […] Nell’anno delle Olimpiadi sono state mobilitate oltre 10.000 persone per ripulire a mano tutte le spiagge, e ci sono volute più di due settimane per rimediare al danno: la zona interessata copriva più di un terzo dell’area destinata alle gare di vela. I numeri legati a questo episodio sono considerevoli: più di 1000 barche sono state impiegate per la pulizia del mare e il quantitativo di alghe prelevato è stato a dir poco sbalorditivo, oltre 100.000 tonnellate [National Geographic, 25 luglio 2008]. (p. 61)
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Einstein: «Se l’ape scomparirà dalla Terra, allora agli uomini rimarranno solo pochi anni di vita. Non più api, non più impollinazione, non più piante, non più animali, non più uomo». (p. 64)
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[…] La riproduzione del 70% delle specie vegetali di cui ci nutriamo dipende infatti dalle api. Il valore economico delle colture che andrebbero perse senza le api è altissimo: si stima che si aggiri intorno al 10% dell’agricoltura mondiale. 250.000 specie di piante dipendono dalle api e in agricoltura sono almeno 90 i tipi di coltura legati a esse. Il loro lavoro è enorme: un’ape bottinatrice è in grado di visitare 700 fiori al giorno, un alveare medio contiene 30.000 api e quindi una colonia riesce a visitare più di 20 milioni di fiori quotidianamente. Un piccolo apiario, costituito da 5 arnie, riesce a impollinare 70 milioni di fiori al giorno. Per produrre un chilo di miele vengono percorsi in media circa 150.000 chilometri, ovvero quattro volte il giro della terra. Un singolo alveare contribuisce all’impollinazione di un area di 3000 ettari: […]. Secondo l’INRA (Istituto nazionale di ricerche agronomiche francese), nella sola Europa il numero delle specie coltivate che dipendono dal lavoro delle api arriva addirittura all’84% del totale. […] La moria delle api domestiche è cominciata agli inizi degli anni Novanta in Europa. Dal 2000 in poi si sono avute numerose perdite in tutto il mondo, nell’ordine del 30-50% degli allevamenti apistici del mondo. L’hanno chiamata Colony Collapse Disorder: intere colonie scompaiono e i corpi delle api senza vita o morenti si ritrovano lontani dal loro alveare, che non riescono più a raggiungere. Api che non riescono nemmeno più ad alzarsi in volo, muoiono lentamente. Gli alveari si svuotano e non vengono più ricolonizzati. Ci si è concentrati sulle perdite dell’ape domestica, ma le specie selvatiche delle apoidee, che corrispondono all’80% sul totale della specie, subiscono perdite maggiori perché non sono accudite da nessuno, […]. Nel 2010 sulla rivista Science sono usciti dati sconcertanti: a partire dagli anni Ottanta, solo in Gran Bretagna si sono perse il 52% delle api selvatiche e nei Paesi Bassi si è arrivati al 67%. […] Varie teorie hanno cercato di dare un senso alla «scomparsa delle api». Uno degli imputati è il clima. Da una ricerca condotta nel 2009 dal professor Umberto Solimene dell’Università degli studi di Milano […] è emerso che l’aumento della temperatura del pianeta incide negativamente sulla salute delle api e quindi la produzione di miele potrebbe cessare da qui a 100 anni. Secondo il professor Solimene, il riscaldamento globale negli ultimi 20 anni è cresciuto notevolmente, anticipando di ben 20 giorni gli eventi di carattere primaverile. Il prolungamento delle attività causerebbe uno stress molto forte alle api. Una seconda ipotesi molto interessante, sempre elaborata dello stesso team di ricerca, è legata a una malattia che colpisce le api: la Varroa destructor, un acaro parassita delle covate delle api. Le temperature degli ultimi 10 anni hanno creato le condizioni per covate precoci, fuori stagione, fornendo così l’opportunità alla Varroa di diventare più aggressiva, grazie al maggior numero di cicli a disposizione. Le api, sempre più esposte a diversi attacchi biologici (virus, microbi e altri parassiti), diventano ancora più deboli. In USA, nel 2007, durante un anno di particolare siccità, si sono verificati i picchi di maggiore mortalità: oltre il 36% degli alveari totali. […] Il dottor Bromenshenk, dell’Università del Montana, […] A suo parere è l’insieme di virus e fungo a scatenare i sintomi tipici della moria delle api […]. Dietro al misterioso caso delle api scomparse per alcuni è certo ci sia una categoria di pesticidi, i neocotinoidi (i più conosciuti sono: Acetamiprid, Imidacloprid, Thiacloprid e Thiamethoxam), che agiscono sul sistema nervoso degli insetti, bloccando i passaggi degli impulsi nervosi. Sono sostanze utilizzate per la concia dei semi, per fornirli di un armamento chimico con il quale difendersi da malattie o attacchi patogeni di varia natura, […]. Grazie al processo di evapotraspirazione si creano degli essudati sulle foglie, gocce che possono contenere i prodotti chimici con cui sono stati conciati i semi. Dalle gocce prelevate dai germogli delle giovani piante di mais, analizzate dal professor Andrea Tapparo del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova, è emerso che il quantitativo di neocotinoidi è enormemente superiore alla quantità letale per le api che si dissetano delle gocce avvelenate. Il professor Vincenzo Girolami dell’Università di Padova ha cronometrato il tempo di «efficacia» dei neocotinoidi e ha dimostrato che nelle api la morte può arrivare 2 minuti dopo aver assunto le gocce di guttazione. […] (pp. 64-68)
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In Italia l’uso dei pesticidi è particolarmente massiccio: siamo i primi in Europa, con un quantitativo di 7070 tonnellate, pari al 33% della quantità totale usata nell’Unione Europea. (p. 69)
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[…] monocolture, che si sono dimostrate estremamente vulnerabili agli attacchi di parassiti e malattie di ogni genere. Nel 1948 in America si usavano 22.650 tonnellate all’anno di pesticidi e si perdeva comunque il 7% di prodotto a causa dei parassiti. Oggi il consumo dei pesticidi si attesta a 450.000 tonnellate e la perdita del raccolto è salita al 20%. (pp. 70-71)
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Pesticidi. […] Gli alimenti (soprattutto frutta e verdura) ne sono letteralmente coperti. Secondo il dossier di Legambiente del 2011, I pesticidi nel piatto, sono presenti sostanze di sintesi in oltre il 37% dei prodotti ortofrutticoli. Secondo i dati dell’ARPA, nel 18% dei casi frutta, verdura e derivati (pasta, pane, vino e succhi) contengono le tracce di almeno un pesticida, mentre più del 18,5% più di uno. Questo significa che ogni prodotto alimentare che finisce sulle nostre tavole è contaminato da un prodotto chimico. […] La quantità di pesticidi rilevata nella frutta è preoccupante: nel 45,7% delle mele, nel 49,8% delle pere, nel 47,16% delle fragole, nel 40,6% delle pesche e nel 44,4% dell’uva analizzate. Nemmeno il vino si salva: nel 38,6% dei campioni sono presenti residui chimici, così come nel 26% dei campioni di olio di oliva. (pp. 72-73)
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Il suolo si ammala, […].Tra le peggiori malattie causate dall’uomo alla «pelle del pianeta» ci sono: l’erosione, la desertificazione, la salinizzazione e la desertificazione, […]. Secondo il rapporto della FAO, The State of the World’s Land and Water Resources for Food and Agriculture del 2011, il 25% delle terre emerse è altamente degradato, l’8% è moderatamente degradato, il 36% è stabilmente o leggermente degradato. Nel mondo sono potenzialmente coltivabili 4,4 miliardi di ettari di terra; attualmente ne sono messi a coltura 1,6 miliardi e di questi il 20% (ovvero circa 0,3 miliardi di ettari) si trova su terre poco adattate all’agricoltura. Secondo i dati dell’European Soil Bureau (ESB) sulle banche dati del CORINE Land Cover (COoRdination de l’INformation sur l’Environnement), il 30% dei suoli italiani è a rischio erosione. […] Stando ai dati resi noti nel 1990 dalla World map of the status of human-induced soil degradation, […] il 13% della superficie terrestre era affetta da problemi di erosione. […] Ogni anno l’erosione interessa 7 milioni di ettari, cui se ne aggiungono 1,5 milioni risultanti dalla salinizzazione e alcalinizzazione dovute a scorrette pratiche agricole. L’erosione rimane comunque la forma più diffusa di degrado del suolo, come spiega Rattan Lal dell’Università dell’Ohio […] 751 milioni di ettari di terreno sono erosi dall’acqua e 549 milioni dall’aria. Aria e acqua […] diventano una minaccia per i suoli privati delle difese naturali: le cover crop, ovvero le colture di copertura adoperate per la protezione del suolo dagli agenti atmosferici […] non vengono adoperate a causa dei problemi tipici dell’agricoltura moderna: tempi sempre più ridotti per il riposo del terreno e costi di produzione troppo elevati. […] l’erosione attraversa quattro fasi: il distacco, la rottura, il trasporto e la deposizione dei sedimenti. La sostanza organica viene dispersa in tutte e quattro. Più sostanza organica viene persa, più il suolo è esposto all’erosione. Più il terreno si erode, più si perde sostanza organica […] nel processo di erosione l’anidride carbonica (immagazzinata nel suolo sotto forma di sostanza organica) viene degradata troppo velocemente rispetto ai tempi necessari alla sua normale trasformazione, così non riesce a rientrare nel normale ciclo del carbonio con l’assorbimento delle piante. Secondo i calcoli del professor Lal, in questo modo l’erosione del suolo contribuisce ogni anno al 20% di emissioni di gas serra dovute alla perdita diretta di sostanza organica (e quindi humus). […] La materia organica presente nel suolo non è niente altro che il totale della materia di origine vivente che viene costantemente accumulata e decomposta, per poi trasformarsi nell’elemento base, il carbonio, che si libera sotto forma di CO2, per poi venire nuovamente assorbito grazie alla fotosintesi delle piante. […] Secondo le stime ufficiali della Comunità Europea (2011), il 74% dei suoli italiani è al di sotto della soglia del 2% di sostanza organica totale, il minimo per garantire un buon grado di efficienza. (pp. 75-79)
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Secondo il protocollo di Kyoto l’Italia dovrebbe ridurre i gas serra del 6,5% tra il 2008 e il 2012. Secondo i calcoli dell’APAT (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici) sarebbe bastato semplicemente aumentare dello 0,1%, il contenuto di carbonio nel suolo, semplicemente impiegando pratiche di agricoltura ecologiche. (p. 80)
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La desertificazione è un problema che riguarda anche l’Italia per il 3% della sua superficie nazionale (9200 kmq circa) e potenzialmente le aree interessate dal fenomeno potrebbero essere di 16.000 kmq. Secondo la FAO, in Africa Sub-Sahariana, in America del Sud, nel Sud Est-Asiatico e in Nord Europa oltre la metà delle terre coltivate è interessata da problemi di desertificazione. […] al mondo ci sono 4,4 miliardi di ettari da coltivare. Per sfamare la popolazione mondiale, entro il 2050 sarà necessario aumentare la produzione del 70% […]. (p. 83)
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Le insalate già lavate sono in confezioni colorate, accattivanti, […]. Questo tipo di prodotti, pronti per il consumo, vengono chiamati prodotti della IV gamma. Sono le verdure che non conoscono stagioni, già tagliate, lavate e pronte per essere mangiate. L’espressione «IV gamma» è nata in Francia e fa riferimento al grado di lavorazione a cui vengono sottoposti gli ortaggi. Nella I gamma troviamo i vegetali nella classica cassetta del mercato. Nella Il gamma abbiamo i prodotti conservati, carne i pelati in scatola. Nella III gamma gli ortaggi congelati. Nella IV gamma frutta e ortaggi pronti per il consumo. […] Nonostante la crisi economica del primo decennio del 2000, l’Europa ha visto crescere enormemente i consumi della IV gamma, in particolar modo in Italia: nel 2008 hanno raggiunto 1700 milioni di euro di fatturato. Siamo diventati il secondo mercato europeo dopo il Regno unito. Quello che suscita grande perplessità è che nel periodo 1998-2008, in cui la verdura pret-à-manger ha compiuto un balzo a 2 zeri (+200% in 10 anni), la verdura e gli ortaggi di I gamma hanno registrato un calo del 22%. Nel 2008 in Italia la superficie coltivabile occupata dai prodotti ortofrutticoli di IV gamma era di 52.000 ettari e ne sono state prodotte 90.000 tonnellate. Ogni famiglia ne ha consumati più di 3 kg l’anno. (pp. 94-95)
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Per mangiare una bella insalata già tagliata, ben lavata e pronta al consumo si arriva a pagare cifre folli. La singola busta ha un prezzo irrisorio, tra 1 e 2 euro, ma se guardiamo il prezzo al chilo ci rendiamo conto che il costo è davvero molto elevato. A volte si arriva a più di 30 euro al kg: […]. Spendiamo i nostri soldi per un prodotto il cui peso è composto per la maggior parte da aria. […] Da un’indagine ISMEA-ACNielsen emergono molti elementi interessanti. Nell’arco del 2008 si è arrivati a pagare gli ortaggi della IV gamma fino a 8,2 euro al kg, contro l’1,49 euro al kg degli ortaggi della I gamma. Si tratta di prezzi medi, per cui si può facilmente immaginare come in alcuni casi il prezzo sia di gran lunga superiore, come appunto i 20-30 euro al kg per le buste di insalate più pregiate. […] (pp. 97-98)
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[…] montagne (letteralmente) di imballaggi che ci riempiono le case, […]. Secondo le elaborazioni ISPRA su dati Eurostat dell’ultimo Rapporto rifiuti, ogni anno finiscono nei cestini europei 79,6 tonnellate di imballaggi, un terzo dell’immondizia prodotta. Tra questi rifiuti ci sono vaschette, confezioni e pacchetti di insalate e verdure di II, III, IV e V gamma (ortaggi cotti, grigliata, scottati). […] Nell’arco di dieci anni, dal 1997 al 2006,l’incremento della produzione dei rifiuti da imballaggi è stato di 13 milioni di tonnellate, ovvero il 21,6% sul totale. […] Secondo i dati Incpen, chi vive solo produce una quantità di imballaggi due volte e mezzo superiore a quelli di una persona che vive in una famiglia di quattro persone: 11 kg contro 4 kg a settimana. […] ogni tonnellata di rifiuti alimentari genera 4,2 tonnellate di CO2. (pp. 96-99)
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Se pensiamo sempre alle verdure della IV gamma, lo scarto e quindi lo spreco di materiale alimentare raggiunge percentuali davvero folli […]: viene buttato il 40% degli ortaggi che raggiungono l’azienda che «imbusta». (p. 99)
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Per soddisfare la voglia di una ciliegia fuori stagione, le facciamo compiere un viaggio di 12.000 km dal Cile all’Italia, con il risultato di produrre 21 kg di gas a effetto serra. Le albicocche australiane compiono ben 16.000 km ed emettono 29,3 kg di CO2, i mirtilli dell’Argentina 11.000 km e producono 20 kg di anidride carbonica, gli asparagi del Perù 7018 km con 15 kg di anidride carbonica. […] Ma non solo: ogni frutto fuori stagione consuma tantissimo petrolio. 9,4 kg per ogni kg di albicocche australiane; 6,9 kg per 1 kg di ciliege del Cile; 4,8 kg per 1 kg di more del Messico e così via. […] al giorno d’oggi un pasto medio è reduce da un viaggio di almeno 1900 km. (p. 101)
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La mela […] è presente tutto l’anno nei supermercati e quindi è il frutto più de-stagianalizzato in assoluto. È stato necessario selezionare le varietà che più si adattassero al consumo di massa […]. La selezione ristretta ad alcune varietà ne ha fatte scomparire moltissime altre: nel mondo se ne contavano ben 7000, ma la forte «selezione all’ingresso» operata dalla Grande distribuzione ha ristretto la possibilità di scelta a 5-7 varietà. […] Le mele come Fuji, che si conserva molto a lungo, Golden, Stark, Gala, Renetta e Granny Smith si trovano tranquillamente sia in Italia sia in Inghilterra e in Francia. Gusti globalizzati e internazionali. Se parliamo del gusto della mela è sicuro che è uguale per tutti […]. Oltre che all’omologazione del gusto, ci siamo abituati a un consumo di alimenti dall’aspetto standardizzato. […] restano solo prodotti belli da vedere. […] quando raccogliamo una mela dall’albero ci vengono seri dubbi sulla sua commestibilità. Eppure è semplicemente brutta. […] La bellezza di un prodotto agricolo determina il suo destino. L’estetica del frutto o di un ortaggio è la causa diretta dello spreco di cibo: secondo i dati ISTAT, il 3,3% della produzione nazionale agricola in Italia viene abbandonata nei campi perché non «idonea al mercato, per una quantità equivalente a più di 17 milioni di tonnellate di cibo». (pp. 102-103)
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Il set a side, la messa a riposo dei terreni, venne introdotto per la prima volta in Europa nel 1988 con l’obiettivo di limitare le eccedenze, in particolare della produzione cerealicola, […] per un periodo minimo di 5 anni e per almeno il 15% della superficie coltivabile dell’azienda agricola. […] Nonostante dal 2003 il set a side non sia più obbligatorio, i terreni messi a riposo (non solo per le produzioni COP) aumentano vertiginosamente in virtù di nuovi incentivi. […] dal 1996 al 2006 si è passati da 1,7 milioni di ettari a ben 3 milioni di ettari. […] Nonostante le buone intenzioni, insomma, l’uomo ha ridotto l’effetto aumentando gli input produttivi (concimi, agrofarmaci ecc.) nei terreni non a riposo - fenomeno conosciuto come slippage. […] il set a side […] nel 2009, […] viene abolito. (pp. 109-110)
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Le quote latte […] sono limiti alla produzione, che vengono negoziati Paese per Paese per regolamentare il mercato interno europeo ed evitare così che i prezzi crollino per un eccesso di offerta. Le sovraproduzioni non sono vietate, ma su queste gli allevatori devono pagare una soprattassa - che ha l’obiettivo di disincentivarle. Introdotte nell’aprile del 1984, in Italia sono state applicate solo dal 1992. L’Unione Europea ha assegnato all’Italia quote per meno della metà della produzione effettiva. I parametri presi dall’Europa come riferimento per definire il tetto di quote nazionali erano pari alla produzione del 1984, ovvero 8.823.000 di tonnellate di latte. Attualmente la quota nazionale di latte garantita è di circa 10 milioni di tonnellate. Con le quote latte gli italiani sono stati i più penalizzati nel sistema europeo anche perché è stato loro applicato il più alto prelievo supplementare in Europa. Si tratta di una specie di imposta che viene pagata ogni anno per il latte prodotto eccedentario alla quota, che per l’Italia corrisponde a 27 euro circa al quintale. Alla distanza tra i dati reali e quelli presi in considerazione dall’UE si aggiungono poi quelli che possono essere chiamati vizi d’origine. I produttori non possono sapere in anticipo se avranno una penalità o meno, e inoltre un allevatore attualmente non sa se infrangendo le regole verrà sanzionato o no. Lo Stato negli anni si è fatto carico delle multe da pagare per - si calcola - 1,87 miliardi di euro. La quota latte è di fatto il quantitativo di latte che un’azienda agricola produce e vende. Ogni allevatore è quindi obbligato a possedere delle quote latte per essere autorizzato a vendere. Ce ne sono di due tipi: una è la quota consegne legata alla vendita alle imprese di trasformazione e l’altra è la quota vendite dirette, ovvero quella relativa alla vendita dal produttore al consumatore. La quota nazionale viene divisa tra tutti i produttori facendo distinzione tra quota consegne e quota vendite. Una quota latte inoltre può essere venduta, anche tra aziende di regioni differenti ma, a seconda della zona di provenienza, non può essere superiore al 70% o al 50% di quelle possedute. Dal 2015 le quote latte diventeranno solo un lontano ricordo, perché, come abbiamo visto, la politica agricola comunitaria sta cambiando e le risorse verranno dedicate molto di più allo sviluppo rurale e al sostegno delle aziende agricole. […] Per il latte prodotto oltre la quota imposta dall’Unione Europea l’Italia si è ritrovata con un buco finanziario di 4,4 miliardi di euro. Ma di questi gli allevatori si sono fatti carico solo per 400 milioni, mentre lo Stato, con un accordo del 1994 in ambito Ecofin, ha anticipato a Bruxelles 1,87 miliardi e 2,1 dovrà recuperarli per evitare di incappare in sanzioni UE. Dietro alle quote latte si nascondono poi alcuni furbetti, […]. Ci sono produttori «fittizi» che acquistano quote, anche se in realtà non producono nulla, e poi le rivendono. Alcune aziende prima di cessare l’attività vendono le proprie quote latte, beneficiando in questo modo di un guadagno netto mentre il settore subisce un danno che si distribuisce su tutti gli allevatori, perché di fatto vengono vendute quote che non dovrebbero più esistere. […] Con il decreto legge n.4 del 5 febbraio 2009 (il decreto Zaia, detto salva-quote) si è riusciti a ottenere dall’Europa un aumento delle quote nazionali del 5% in un colpo solo, con un primato storico europeo: l’aumento massimo delle quote per gli altri Paesi era sempre stato solo dell’1% annuo. Ma il decreto era iniquo, perché fondamentalmente favoriva chi da tempo era eccedentario offrendo un sistema per non pagare il prelievo supplementare. Per esempio, le aziende di pianura eccedentarie di oltre il 105% della propria quota, nel decreto erano segnate come prioritarie per la consegna delle nuove quote disponibili. Questa scelta ha penalizzato chi aveva invece agito in un regime regolare pagando le proprie eccedenze, e di fatto ha creato una distorsione nel mercato. In questi anni si sta stringendo il cerchio intorno agli irriducibili: Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) ha trasmesso le carte a Equitalia che partirà dunque con la riscossione coatta degli importi dovuti, e cioè 96,4 milioni a carico di 561 produttori; gli unici, su un totale di circa 40.000 allevatori in attività, che finora hanno sempre rifiutato di aderire ai piani di rateizzazione previsti dalla legge 33/2009 e dalla 119/2003 e che producono eccedenze non regolari, fuori quota. È facile immaginare quanto siano felici quei 39.439 allevatori che hanno sempre pagato le quote e le eccedenze, in alcuni casi anche a rischio di indebitarsi, di sapere che alcuni «colleghi» non si sono adeguati alla norma. (pp. 111-114)
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[…] considerazione fatta dalla Commissione sui redditi, che nel settore agricolo sono i più bassi in assoluto: si parla del 40% in meno rispetto agli altri settori. (p. 115)
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Il lavoro nero. I dati ISTAT sul lavoro nero del 2009 sono sconcertanti: una popolazione nascosta di 2.966.000 persone - gli abitanti di Roma sono 2.772.752. Il peso economico si attestava nel 2008 tra il 16,3% e il 17,5% del Prodotto interno lordo. L’agricoltura detiene il record: nel 2009 il 24,5% dei lavoratori irregolari era legato al settore primario. […] Il 79% delle aziende agricole controllate dall’INPS non ha dipendenti in regola […] in Lombardia 1 azienda su 9 non è in regola, in Piemonte 1 su 6. Ma la più grande truffa registrata nel settore dell’agricoltura è quella dei falsi braccianti, ovvero di quanti vengono registrati come assunti regolari quando in realtà non lo sono. […] Secondo i dati INPS, quelli che Gian Antonio Stella ha chiamato «i furbetti del poderino» sono saliti negli ultimi anni a 569.841 (il numero di abitanti di Genova). Il fenomeno ha una natura territoriale: se in Lombardia si parla di 1 ogni 4.800.000 abitanti, nelle regioni come la Calabria la densità di « furbetti» aumenta a 1 ogni 151. La grande truffa dei braccianti agricoli ha un peso economico non indifferente: almeno 295 milioni di euro di contributi persi. La questione è davvero bollente. Il 99,1% dei falsi braccianti è concentrato nelle regioni d’Italia in cui l’agricoltura è estensiva: Puglia, Basilicata, Sicilia e Calabria. Dopo i 98.376 «furbi» smascherati dall’INPS nel 2009, il totale negli ultimi 7 anni è salito a 569.841. […] Il meccanismo perverso è quello di assumere «virtualmente» una persona per coprire il lavoro nero svolto generalmente dagli immigrati irregolari. L’obiettivo della truffa è comunque quello di percepire l’indennità per la disoccupazione agricola […] e la copertura ai fini della maturazione della pensione. Per ogni falso bracciante si calcola che la somma percepita dall’INPS si aggiri tra i 5000 e i 10.000 euro all’anno. (pp. 117-120)
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Rosarno. Nel dicembre del 2008, 350 stranieri immigrati […] hanno deciso di […] protestare. […] Nel gennaio 2010 c’è stata invece una vera e propria rivolta, […]. A Rosarno è presente Medici Senza frontiere. […] Dal Rapporto scritto da MSF, Una stagione all’inferno, emerge un mondo sommerso, […]. Dalle interviste fatte da MSF tra luglio e novembre 2007 a 600 immigrati, in sette luoghi dell’Italia dello sfruttamento del lavoro (Piana di Sele, provincia di Latina, provincia di Foggia, Metaponto, Valle del Belice, Palazzo San Gervasio, Piana di Gioia Tauro) emerge che il 72% degli intervistati, tutti impiegati per la raccolta di pomodori, kiwi, uva, meloni, agrumi, è senza permesso di soggiorno e, di quelli in regola, il 90% non ha un contratto. Lavorano dalle 8 alle 10 ore per meno di 4 giorni la settimana guadagnando tra i 20 e i 40 euro. Quasi la metà degli intervistati dichiara che dalla paga giornaliera i caporali trattengono dai 3 ai 5 euro. […] queste persone, a cui vengono ritirati i passaporti per evitare ribellioni e obbligarle a lavorare. […] le condizioni igieniche sono ai limiti, con frequenti patologie come malattie osteomuscolari (22%), dermatologiche (15%), respiratorie (13%), gastroenteriche (12%), del cavo orale (11%), infettive (10%). […] le abitazioni, spesso fatiscenti (fabbriche abbandonate, casolari di campagna privi di ogni tipo di comfort), sovraffollate, senza riscaldamento e con scarso accesso all’acqua. (pp. 121-122)
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La situazione descritta dalle ricerche dell’INEA, Istituto Nazionale di Economia Agraria, denuncia un forte aumento dei cittadini extracomunitari che finiscono nel baratro dell’agricoltura nera: dal 1989 al 2007 si è registrato un aumento del 700% - in cifre: da 23.000 a 172.000 persone. (p. 123)
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Nel 2007 la FAO, in occasione della giornata mondiale contro il lavoro minorile, dichiarava che oltre 132 milioni di bambini tra 15 e i 14 anni sono costretti a lavorare in agricoltura. […]. (p. 123)
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[…] il 70% dei lavoratori minori è occupato in agricoltura, un terzo della manodopera totale del settore. […] Anche in Italia il 28% della manodopera agricola è minorile. (p. 124)
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Secondo le stime effettuate da IOL, Children in Hazardous Work - What we know, what we need to do, del giugno 2011, dei 215 milioni di lavoratori minori, 115 milioni sono coinvolti in lavori pericolosi. Di questi, il 58% (ovvero ben 68 milioni) lavora in agricoltura. (p. 125)
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Il caso più eclatante per quanto riguarda l’esposizione ai pesticidi è quello delle banane. Nel 2007 ActionAid ha denunciato che in Costa Rica, uno dei più grandi produttori al mondo di banane, gli aerei cospargono i bananeti di pericolosi pesticidi mentre i lavoratori sono ancora nei campi. Inoltre vengono usati pesticidi banditi da diverse decine di anni come il DBCl, un neumaticida con effetti cancerogeni, che rende sterili e provoca irritazione della pelle. […] Le banane appena raccolte vengono lavate con prodotti chimici in cui le mani, senza alcun tipo di protezione, rimangono immerse per tutto il turno di lavoro. […] l’uso indiscriminato dell’irrorazione aerea dei pesticidi a quanto pare è una prassi normale nelle grandi piantagioni dei Paesi in via di sviluppo. L’82% dei lavoratori presenta dermatiti da contatto alle mani, a torace e addome (9%) a gambe e piedi (5%) e persino ai genitali (4%): nell’85% dei casi le sostanze responsabili di queste affezioni sono state individuate in chlorothalonil, thiabendazolo, imazalil e idrossido di alluminio. (pp. 125-126)
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Negli anni Cinquanta ha avuto inizio l’intensivizzazione degli allevamenti, […]. Fino agli anni Sessanta il consumo di carne nel mondo era stimato a 71 milioni di tonnellate l’anno; nel 2007 si è arrivati a 284 milioni di tonnellate. Nei Paesi in via di sviluppo si è registrata una crescita inarrestabile: negli ultimi 20 anni il consumo è raddoppiato. Secondo Henning Steinfeld, della FAO, con questo tasso di crescita nel 2050 il consumo sarà di 600 milioni di tonnellate. (p. 128)
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Secondo i dati dell’ONU, il consumo di carne è una delle cause indirette della denutrizione di 850 milioni di persone. Secondo la FAO, le coltivazioni necessarie per la produzione di mangimi animali occupano una superficie che corrisponde al 33% delle terre coltivabili nel mondo. […] Per produrre un dato quantitativo di calorie dalla carne occorre una superficie almeno 10 volte superiore rispetto a quella richiesta per produrre la stessa quantità di calorie dal mais. Da 1000 calorie vegetali, un erbivoro ne produce 100 utili all’uomo. Per dare un altro metro di paragone: per produrre i kg di carne bovina ne servono 8 di cereali. […] Secondo Roberto Rizzo [Come salvare il pianeta senza essere superman, Einaudi], un ettaro di terra coltivato a patate, carote, riso o grano, sfama 20 persone; il loro numero si riduce a 3 se la stessa superficie viene coltivata per produrre mangime destinato alla produzione di carne suina e a 2 per la carne bovina. Se pensiamo che nei prossimi 40 anni si dovrà aumentare la produzione di almeno il 70%, e che diminuirà la superficie di terra disponibile, sarà sempre più difficile riuscire a nutrire tutti con i consumi di carne attuali. Già oggi l’allevamento di carne (comprese le superfici adibite a pascolo) copre l’80% della superficie mondiale di terre coltivabili. (pp. 129-130)
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Frances Moore Lappé, autrice del libro Diet for a small planet, ha calcolato che negli Stati Uniti in un solo anno per nutrire gli animali degli allevamenti sono stati impiegati 145 milioni di tonnellate di cereali, ottenendo così 21 milioni di tonnellate di carne, latte e uova. La differenza tra la produzione di carne, latte e uova e quella di cereali, ovvero 124 milioni di tonnellate, sarebbe bastata per dare un pasto al giorno per un anno a ogni abitante del pianeta terra. (p. 130)
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La produzione di carne ha anche un forte impatto ambientale. Per ottenere un solo chilo di carne bovina servono dai 700 ai 15.000 litri di acqua e vengono prodotti 16 kg di CO2. […] Per comprendere la quantità d’inquinamento provocata dalla produzione di un chilo di carne bovina: l’anidride carbonica prodotta è la stessa che si ottiene percorrendo 250 km in auto. L’energia spesa per produrre 1 kg di carne basterebbe per tenere accesa una lampadina da 100 watt per 10 giorni. […] dietro gli allevamenti si nasconde un nemico ben peggiore: gli ossidi di azoto. Questi hanno un potenziale climalterante 265 volte più forte della CO2. Gli allevamenti producono il 65% degli ossidi di azoto delle emissioni mondiali. A questi si aggiunge il 37% di metano, che pure contribuisce al riscaldamento globale, e l’ammoniaca, nella misura del 64%, che partecipa alla formazione di piogge acide. L’inquinamento degli allevamenti è tale che, secondo il Wuppertal Institute, il contributo all’effetto serra è quasi pari a quello della totalità del traffico di autoveicoli nel mondo. (pp. 130-131)
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Uno degli argomenti scottanti per gli allevatori di oggi sono le deiezioni animali. […] Negli allevamenti tradizionali, grazie all’uso della paglia, le deiezioni animali diventavano prezioso letame, utile per la coltivazione, che non creava problemi all’ambiente: […]. Negli allevamenti moderni, che ospitano centinaia di capi di bestiame, i reflui, a causa dell’acqua di lavaggio, diventano molto liquidi e rimane solo un 10% di sostanza secca. Questo trasforma i liquami da prezioso concime a rifiuto industriale, ricco di azoto, fosforo e potassio che, non assorbiti da un substrato naturale come accadeva prima con la paglia, possono essere fonte di eutrofizzazione e inquinamento delle falde acquifere. La quantità di feci è enorme: una vacca da latte riesce a produrre in un anno un quantitativo di feci pari a 30 volte il suo peso, un vitello 25 volte e una scrofa 15 volte. Ma sono le piccole specie a detenere il record assoluto: nel caso di polli e conigli, in un anno, la produzione di feci ha un volume pari a 40 volte il peso corporeo. (pp. 131-132)
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Insieme alle feci, si diffondono nell’ambiente anche molecole di origine non naturale. Non tutto ciò che viene ingerito dall’organismo animale viene trasformato e usato […]. Questo accade per tutti i farmaci e tutte le sostanze sintetiche, come additivi, antiparassitari, anabolizzanti, […]. Attraverso i suoli, le sostanze xenobiotiche […] vengono assorbite dalle piante, dagli animali e dai pesci, rientrando nella nostra catena alimentare. […] (p. 134)
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Tra gli animali da allevamento, i polli sono quelli con meno spazio in assoluto. Le galline ovaiole hanno a disposizione 550 cmq, che non permettono i normali movimenti dell’animale, indebolendone così gli scheletri che sono soggetti a fratture. Per i polli da carne si parla di spazi ancora più piccoli: 20 polli per mq, in modo da limitarne il movimento e da farli ingrassare più in fretta. Per le bovine da latte, l’obiettivo produttivo, fare il latte, è causa della loro cattiva condizione: si cerca di produrne più possibile, fino a 40 litri al giorno per mucca (una misura al limite del sostenibile), rendendole così soggette a mastiti frequenti. (p. 135)
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Il primo antibiotico utilizzato nel settore allevamento fu, negli anni Quaranta, la penicillina. Presto fu evidente che gli antibiotici […] accrescevano le dimensioni degli animali. […] Da semplici medicinali, gli antibiotici trovarono una nuova veste come APC, ovvero additivi promotori della crescita. L’uso degli APC migliorò la produzione, aumentandola addirittura del 30%. […] (p. 136)
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[…] l’Unione Europea già nel 2003 con il Regolamento n. 1831/2003 aveva bandito a partire dal 2006 l’uso di antibiotici come promotori della crescita. Nel 2008 l’EFSA (European Food Security Authority), […] ha lanciato un allarme: in molti casi i cibi di origine animale possono trasmettere batteri resistenti agli antibiotici. Secondo l’autorità per la sicurezza alimentare, i medicinali rimangono nei tessuti animali e vengono quindi assorbiti dall’uomo. L’Organizzazione mondiale della sanità sostiene che più della mete degli antibiotici prodotti nel mondo è destinata alla produzione animale. […] Per produrre 1 kg di carne vengono impiegati 100 mg di antibiotici: il consumatore medio alimentandosi con 87 kg di carne in un anno assorbe potenzialmente 9 g di antibiotici (una quantità che corrisponde a 4 terapie antibiotiche). (pp. 138-139)
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L’influenza aviaria: p. 140.
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Morbo della Mucca Pazza: pp. 141-142
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[…] Si dice che in caso di guerra lo Stato che possiede più terra può sopravvivere più a lungo, esattamente come accadeva secoli fa durante gli assedi ai castelli, dove i piccoli orti riuscivano a sfamare tutta la comunità all’interno delle mura. […] La terra viene venduta, svenduta e rubata in molti modi differenti: per indicare questa speculazione è nata l’espressione land grabbing, coniata da GRAIN, un’organizzazione no-profit nata negli anni Ottanta, che si occupa di aiutare i piccoli agricoltori e i movimenti legati all’agricoltura. (p. 146)
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La FAO prevede che nel 2025 la popolazione urbana supererà quella agricola. (p. 147)
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Se i dati di perdita del suolo per erosione e desertificazione venissero incrociati con quelli del consumo a causa della cementificazione vedremmo due linee che avanzano una verso l’altra, lasciando sempre meno spazio all’agricoltura. […] Le malattie odierne dello sviluppo urbano hanno molti nomi: junkspace, lo spreco dello spazio, monumentali megalomanie architettoniche erette in nome del «non-luogo» e dello spazio indefinito, nate già vecchie e polverose; bigness, ovvero la necessità di costruire enormi mostri di cemento che sovrastano le città; sprawl urbano, ovvero lo stravaccamento, lo stadio terminale di una città che non riesce più a contenere i suoi limiti geografici e si sviluppa in orizzontale per chilometri e chilometri. (p. 147)
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[…] Solo negli ultimi 10 anni sono state costruite 4 milioni di case, ma 5,2 milioni risultano sfitte. Dagli anni Cinquanta a oggi, in Italia sono stati consumati 2 milioni di ettari di terreno fertile, l’equivalente di Puglia e Molise messi insieme. Secondo l’Osservatorio nazionale del consumo di suolo, solo in Lombardia dal 1999 al 2004 il territorio urbanizzato è cresciuto al ritmo di 13 ettari al giorno. […] Dal 1994 a oggi sono state edificate 331.855 case abusive, per una superficie di oltre 46 milioni di metri quadrati e un valore stimato in oltre 23 milioni di euro. Più della metà (58,7%) sono state costruite nelle regioni più belle d’Italia: Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, dove si concentra oltre il 50% dei 7.103 reati relativi al ciclo del cemento accertati nel 2001. Le conseguenze ambientali e sociali di un’ondata di cemento sono enormi. Secondo i dati forniti dall’ISPRA, equivalgono a 5.400 alluvioni negli ultimi 20 anni e 11.000 frane negli ultimi 80 anni, 70.000 persone coinvolte e 30.000 miliardi di danni. Il suolo è una fonte di denaro sicura: in Italia i prezzi dei terreni agricoli sono aumentati del 60%, dal 1992 al 2010. Nel Sud Italia i terreni costano meno di 16.000 euro per ettaro, nelle pianure del Centro Italia 20.000. Al Nord si va dai 20.000 ai 44.000 euro per ettaro nel Nord-Est. (pp. 147-149)
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La Romania, già famosa per il turismo medico, negli ultimi anni sta diventando una delle capitali della corsa all’Eldorado della terra. Dal 2014 saranno in vendita tutti i terreni agricoli. Il prezzo varia in funzione di diversi fattori, (forza contrattuale delle parti, livello della domanda e offerta, zona, fertilità del suolo, presenza d’impianti di irrigazione), ma si parla di cifre non paragonabili a quelle italiane: tra 1500 e i 5000 euro all’ettaro. […] Per gli imprenditori agricoli più facoltosi la Romania è un’opportunità: […] si parla ormai di delocalizzazione della produzione agricola. […] La preoccupazione […] degli Stati è di non perdere la possibilità di produrre cibo per il proprio sostentamento. Il principio che ha scatenato le acquisizioni di terra a livello internazionale è la sicurezza alimentare, la necessità di ridurre la propria dipendenza dal mercato mondiale delle materie prime. […] biennio 2007-2008, quando i prezzi delle materie prime sono schizzati alle stelle. Tra il 2007 e il 2008 i prezzi di alcuni alimenti sono aumentati a dismisura: mais (200%), grano (+127%), riso (+170%), ben oltre il 50% di aumento nell’arco di pochi anni. […] L’investimento in futures, ovvero contratti a termine per scambiare merce in un futuro stabilito, è aumentato in modo consistente. Nati per permettere agli agricoltori di bloccare il prezzo del raccolto ed evitare le oscillazioni di mercato, […] sono diventati molto appetibili. […] L’investimento nei futures è aumentato di almeno 5 volte dal 2003 al 2007. Nel 2008 gli investitori in borsa detenevano il 35% di tutti i contratti a termine per il mais, il 42% per la soia, il 64% per il frumento. Per dare un’idea delle dimensioni: il quantitativo del frumento corrisponde al doppio del consumo annuale americano. Alle speculazioni in banca si aggiunge la diminuzione delle superfici disponibili: la forte richiesta di terra da destinare ai biofuel aumenta il braccio di ferro tra energia e agricoltura, […]. Si prevede che nel 2030 i terreni destinati ai biocarburanti aumenteranno del 400%. (pp. 149-151).
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[…] Secondo le Nazioni Unite, i Paesi dell’area del Golfo, la Cina, la Corea e il Giappone sono stati i maggiori acquirenti nei Paesi in via di sviluppo: Africa, Brasile, Kazakistan e Pakistan. Acquistare terra in questi Paesi significa erodere il loro capitale naturale, minando le basi della sicurezza alimentare dell’intero Stato. […] L’Oxfam, una rete internazionale di organizzazioni che lottano contro le ingiustizie e la fame nel mondo, afferma che su 1.100 accordi analizzati, per un totale di 67 milioni di ettari, più della metà ha riguardato l’acquisto di terreni in Africa: è come se fosse stata comprata l’intera Germania. In Uganda, 20.000 persone hanno denunciato di essere state cacciate dalle loro terre per fare spazio alle coltivazioni «straniere». Esistono poi coltivazioni dedicate esclusivamente all’esportazione. Un esempio è l’olio di palma, che si trova in più della metà dei prodotti presenti al supermercato. La domanda è in continua crescita: si prevede che nel 2050 per soddisfarla sarà necessaria una superficie coltivata pari a 6 volte l’Olanda. […] Secondo la Banca Mondiale, nell’80% degli accordi conclusi nel 2011 la terra è rimasta inutilizzata. […] Sempre secondo la Banca Mondiale, abbiamo davanti 445 milioni di ettari di terra che si potrebbe coltivare. (pp. 151-153)
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Tra Francia e America è ancora in corso il dibattito su chi sia l’inventore della distribuzione moderna: i cugini d’Oltralpe aprirono già nel 1830 i Magasins de Nouveautés, a cui seguirono nel 1852 Le Bon Marché a Parigi e poi i magazzini del Louvre, e potrebbero quindi essere i detentori del primato. Gli americani arrivarono dopo, con il grande magazzino Macy’s. Ma i primi al mondo a concepire e realizzare i supermercati furono loro, già nel 1930. Questo spiega il loro dominio nella classifica mondiale della GDO, dove il colosso americano Wall Mart è al primo posto, con un giro d’affari da capogiro: ben 316 miliardi di euro. A seguire il francese Carrefour, con «appena» 90,1 miliardi di euro. La Coop è al 47° posto con un fatturato di 15,3 miliardi di euro. Negli ultimi 20 anni in Italia le piccole botteghe sono fortemente diminuite, passando da 431.000 esercizi commerciali tradizionali nel 1980 a 192.000 nel 2002. Nel 2009, su un totale di 219,6 miliardi di fatturato annuo della distribuzione alimentare, la Grande distribuzione copriva il 54%, registrando una crescita del 20% in soli 10 anni. La Grande Distribuzione Organizzata (GDO) si divide in due modelli. La GD, Grande distribuzione, costituita da molti punti vendita con superfici elevate (supermercati e ipermercati) con insegna unica; la DO, Distribuzione organizzata, con insegna centrale unica e diverse realtà sul territorio (minimarket, superette). Se guardiamo al cibo fresco e confezionato, il 70% del mercato in Italia è coperto da ipermercati, supermercati, superette e hard-discount. (pp. 156-157)
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GDO. Le imprese stanno di fatto abusando del loro grande potere d’acquisto per mantenere bassi i prezzi dei prodotti alla fonte, […]. Nel comparto alimentare europeo i primi 5 operatori detengono il 69% del mercato. Guardando ai valori di ogni Stato, il dominio quasi totale è in Francia, con una quota pari al 90%, ma negli altri Paesi la situazione non è molto differente; 76% Germania, 70% Regno Unito, 57% Spagna e 55% Italia. (p. 157)
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Nel suo libro I padroni del cibo, Raj Patel riporta i dati europei sul sistema alimentare. In Olanda, Germania, Francia, Regno Unito, Austria e Belgio, gli agricoltori che partecipano al sistema alimentare sono 3.200.000 e i fornitori 160.000. Alle semilavorazioni partecipano 80.000 aziende, le centrali di acquisto sono 110, i supermercati 600, gli esercizi commerciali 170.000, i clienti 89.000.000 e i consumatori 160.000.000. (pp. 157-158)
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Il prezzo di un prodotto. […] Dal campo al punto vendita, di quanto aumenta? Un’indagine del 2007 dell’Antitrust ha rilevato che il ricarico sul prezzo finale, in 267 filiere osservate, è in media del 200%. Quando poi i passaggi diventano 3 o 4 si arriva a un ricarico del 300%. Nel caso degli ortaggi abbiamo una delle filiere più lunghe, così composta: produttore, raccoglitore, mediatore, grossista, confezionatore, operatori commerciali privati. Chiaramente la soluzione più vantaggiosa per il consumatore sarebbe saltare tutti passaggi intermedi […] godendo di un risparmio che, secondo la Confederazione Italiana Agricoltori (CIA) e Coldiretti, sarebbe del 30% rispetto ai prezzi della Grande distribuzione. Sempre secondo la Coldiretti, nel 2007 almeno 1 italiano su 7 ha acquistato un prodotto direttamente dalla campagna. […] Nel nostro Paese la forza contrattuale della Grande distribuzione è dovuta al fatto che il 92% dei prodotti alimentari passa attraverso 5 centrali di acquisto: Centrale Italiana, Sma/Auchan, Cieffea, Sicon, ESD Italia. Queste gestiscono i contratti con il fornitore e l’acquisto del prodotto per conto di altri soggetti. (pp. 158-159)
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L’agricoltore, per arrivare sugli ambiti banchi del supermercato, […] è costretto a rispettare regole imposte dalla Grande distribuzione […]. Tutto questo li espone al rischio economico di un ritorno basso e a volte nullo, […]. Questo meccanismo ha portato negli ultimi anni tantissimi agricoltori a buttare via interi raccolti perché il prezzo di acquisto non garantiva un ritorno economico tale da coprire almeno i costi di raccolta. […] Nel 2010 le olive in Puglia venivano pagate 35 euro al quintale quando le spese da sostenere per arare, concimare e raccogliere quella quantità sono superiori a 70 euro. Copagri (Confederazione Produttori Agricoli) nel 2010 denunciava che il prezzo di vendita alla Grande distribuzione dell’olio extravergine di oliva italiano era troppo basso perché fosse davvero tale. Quindi nelle bottiglie di olio extravergine d’oliva pugliese vendute a 2,50 euro quali olive erano state usate? Le vere olive pugliesi rimangono sugli alberi e quelle che finiscono nelle bottiglie non si sa da dove arrivano. […] (pp. 159-160)
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Lo chiamano «scafazzo»: le arance invendute vengono schiacciate nei campi. (p. 161)
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I numeri sulla mancata raccolta in Italia sono impressionanti: solo nel 2009 sono rimaste nei campi 177.000 tonnellate di mele, 400.000 tonnellate di arance, 3,5 milioni di tonnellate di pomodori. […] Nel 2009 in Italia il 3,3 % del raccolto (ovvero 17 milioni di tonnellate), è rimasto in campo anche per ragioni esclusivamente commerciali perché il prodotto non era esteticamente bello, oppure i frutti non erano della giusta dimensione. Secondo l’Osservatorio dei Consumi, gli italiani hanno consumato 8,7 milioni di tonnellate di prodotti ortofrutticoli, un numero decisamente inferiore alla quantità di prodotto che viene buttato. (p. 161)
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Se si valutano i dati Eurostat, sempre pubblicati da Nomisma, il fatturato medio (che non significa il guadagno) di un’impresa agricola è di 29.000 euro, mentre quello di un’industria alimentare media è di 1.400.000. Calcolatrice alla mano, significa che il prodotto agricolo lavorato all’industria alimentare frutta circa 49 volte di più che a un’azienda agricola, quindi la materia prima è fortemente svalutata. […] In Italia, in particolare, vanno aggiunti poi i costi ambientali dato che, come indica sempre lo studio di Nomisma, siamo uno dei Paesi che preferisce il trasporto su gomma. E il costo economico del trasporto su strada, che in Italia è il più alto d’Europa: 1,54 euro al km (comprensivo di carburante, personale, pedaggi) come si legge nell’Albo Nazionale Autotrasportatori. […] bisogna dare un occhio agli utili, ovvero ai soldi realmente incassati dall’agricoltore quando ha finito di regolare tutti i conti. Dal 2004 al 2006, secondo le stime di Nomisma elaborate sui dati Eurostat e AIDA, l’agricoltura avrebbe realizzato un utile sul fatturato totale di 2,8% e l’industria alimentare del 2%. Vista così sembra una situazione rosea. Questo significa che l’agricoltura ha un’ottima condizione economica, tecnicamente guadagna più delle industrie alimentari. Ma Nomisma precisa che per l’agricoltura nel calcolo dell’utile sono compresi i contributi PAC al netto delle imposte (ovvero il sostegno all’agricoltura delle Politiche agricole comunitarie), senza i quali l’agricoltura avrebbe un utile pari a zero! Quindi l’attività agricola in Italia mediamente non è remunerativa. (pp. 162-163)
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Secondo il primo Rapporto Eurispes-Coldiretti sui crimini agroalimentari in Italia, il crimine agroalimentare nel 2009 ha fatturato la bellezza di 12,5 miliardi di euro, di cui il 70% (8,8 miliardi) è stato reinvestito in attività illecite. (p. 164)
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L’agricoltura, in un sistema di distribuzione così costruito, soffre, […]. Invece l’industria alimentare sta bene: il suo giro di affari, secondo la Federalimentare, è stato nel 2009 di 120 miliardi di euro. Parte di questo giro d’affari è però prevalentemente distorto. […] la materia prima che si potrebbe trovare in Italia viene importata dall’estero perché molto più conveniente, lavorata e poi rivenduta come prodotto made in Italy, mentre la materia prima italiana rimane invenduta nei campi a marcire. Si parla di italian sounding quando un prodotto sull’etichetta viene dichiarato italiano ma in realtà è composto da materie prime provenienti dall’estero. Secondo la Coldiretti, almeno 1 prodotto su 3 subisce questa «falsificazione». […] Secondo le stime di Confagricoltura, nel 2009 sono stati spesi 9 miliardi di euro per importare prodotti esteri e «riciclarli» come made in Italy. Si parla proprio di riciclaggio alimentare […]. Riciclare un prodotto estero e rivenderlo come italiano è completamente legale, basta che venga fatto almeno un passaggio di lavorazione in Italia. Stando ai dati Eurispes, i prodotti così trasformati ammontano al 33% del totale, che corrisponde a 51 miliardi di euro. La velocità del fatturato dell’italian sounding è di 6 milioni di euro all’ora. Come sottolinea sempre Confagricoltura, il prodotto simil italiano si traduce anche in un danno economico nell’export. In alcuni Paesi esteri, come Canada e Stati Uniti, supera il prodotto «italiano vero» nel rapporto di 10 a 1, un furto di 24 miliardi di euro a cui si aggiungono le contraffazioni vere e proprie, che ammontano a 3 miliardi di euro. In Europa il rapporto è di 2 a 1. Non esiste di fatto un obbligo a indicare sull’etichetta il luogo d’origine di una lunga serie di prodotti […]. Nel 2010 abbiamo importato 1,8 milioni di tonnellate di grano duro; 10.400 tonnellate di pomodori provenienti da Israele e Marocco, per un valore di 12 milioni di euro e 153.358 tonnellate destinate alla lavorazione, per un valore totale di 89,5 milioni di euro. Importiamo 32.219 tonnellate di uva, per un valore di 53,9 milioni di euro. 62.241 tonnellate di carne. E poi per finire olio vergine ed extravergine di oliva per 42.965 tonnellate e un totale di 94 milioni di euro. (pp. 165-167)
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[…] l’esempio dei pomodori. […] nel 2009 l’Italia ha buttato via 3,5 milioni di tonnellate. Tra trasformati e non, ne abbiamo importati 1.953.358 tonnellate. Se sottraete quello che importiamo a quello che buttiamo via, risulta non solo che siamo autosufficienti, ma che vantiamo un surplus di prodotto. (p. 167)
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Nel 2010 si è festeggiato l’aumento del consumo di prodotti biologici: salumi (+56,4%), pasta e riso (+22,3%), biscotti, dolciumi e snack (+13,5%), lattiero caseari (+13,2%), pane e prodotti sostitutivi (+12,3%), oli (+10,2%,), miele (+8%), uova (+7,4%), frutta e ortaggi (+4,2%.). L’Italia detiene inoltre il record europeo di aziende biologiche: 43.029, corrispondenti a 1,11 milioni di ettari complessivi, che rappresentano il 10,4% della superficie agricola utile totale. Nel 2011 però è arrivata una brutta notizia. A Verona, il 6 dicembre, la Guardia di Finanza ha scoperto montagne di prodotti biologici contraffatti, per l’esattezza 700.000 tonnellate di alimenti finti bio, per un valore di 200 milioni di euro. Un quantitativo che corrisponde al 10% del totale dell’intero mercato nazionale. (pp. 167-168)
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[…] Oggi […] sta nascendo […] un sistema alimentare diverso […] indicato con la sigla AFN (Alternative Food Network), l’opposto della GDO. […] I sistemi di Alternative Food Network sono in grado di mettere in comunicazione diretta consumatore e produttore, senza passaggi intermedi. Solo prodotti di stagione e freschi. Si va dai farmer’s market americani, ovvero i mercati dei contadini, che in America secondo l’USDA, il Dipartimento dell’Agricoltura, hanno toccato un fatturato di 7 miliardi di dollari solo nel 2011, alle più semplici forme di organizzazione spontanea di gruppi di consumo. In Italia conosciamo i gruppi di acquisto solidale (GAS) […]. Il primo in assoluto è nato a Fidenza nel 1994, […]. Nel mondo ci sono diverse iniziative simili: i Teikei giapponesi, gruppi di cittadini autorganizzati o riuniti anche in cooperative di consumo, che oggi coinvolgono 1 famiglia su 4. In Francia le Amap (Association pour le maintien de l’Agriculture Paysanne, Associazione per il mantenimento dell’agricoltura contadina) oggi sono più di 1000. E poi la CSA (Community Supported Agriculture, Comunità a supporto dell’agricoltura), diffuse in Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Danimarca e in alcuni Stati dell’Africa, che negli Stati Uniti contano più di 1700 gruppi, e a cui aderiscono centinaia di migliaia di persone: […]. Teikei, CSA e AMAP preacquistano il prodotto, assicurando così agli agricoltori il capitale necessario per coltivare la terra. Ogni famiglia potrà poi ricevere la quota di raccolto spettante, per l’arco di tutta la stagione. Ci sono altre forme di consumo, come il pick your ows (qualcosa che si può tradurre come «raccogli da te»), in cui l’intermediazione è azzerata e le persone raccolgono autonomamente i frutti e gli ortaggi in accordo con le aziende. (pp. 168-169)
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OGM. Le biotecnologie sono molteplici, e non esiste solo un metodo per migliorare o modificare geneticamente una pianta o un animale. Ci sono due grandi categorie: le tecniche OGM che modificano il patrimonio genetico di un organismo inserendo nel suo genoma un gene estraneo, il transgene, e le tecniche non OGM, che rendono possibile il miglioramento genetico grazie alla decodifica delle informazioni utili alla selezione delle varianti genetiche migliori. (p. 172)
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Sementi ibride. […] Un ibrido nasce dall’unione di due varietà differenti ma sempre della stessa specie, producendo così un individuo con caratteristiche genetiche migliori (quando va bene). Le caratteristiche migliorate iniziano a perdersi già dalla seconda generazione a causa della ricombinazione genetica naturale. […] l’azienda produttrice l’anno seguente produrrà un nuovo seme con caratteristiche migliori. L’agricoltore, che deve ottenere rese sempre maggiori, sarà quindi costretto ad acquistare il nuovo seme proposto dall’azienda produttrice. […] Nel caso delle sementi geneticamente modificate, il contenuto tecnologico è difficilmente riproducibile: in alcuni casi si è arrivati a indurre la sterilità proprio per evitare che l’agricoltore possa prodursele da sé e che avvenga di fatto un furto di un brevetto. (p. 172)
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Il Parlamento Europeo durante il 2011 si è pronunciato con una votazione per sostenere il diritto nazionale ai divieti di coltivazione di OGM. Con 548 voti a favore e 84 contrari, è stata concessa la libertà agli Stati membri di decidere autonomamente sull’uso delle colture OGM: […]. Per ora comunque in Europa sono state autorizzate solo la coltivazione di mais e patata geneticamente modificati. Nel 2010 la patata OGM Amflora ha superato la resistenza dell’Unione Europea, che durava dal 1998: ne è stato consentito l’utilizzo industriale allo scopo di produrre amido e mangime. […] Sono state approvate anche tre varietà di mais OGM destinate all’alimentazione animale. […] è una svolta storica perché […] fino a poco tempo fa in UE […] c’era il divieto alla coltivazione e non al consumo. Nel febbraio 2011 è arrivata un’altra notizia dirompente: il Comitato permanente per la sicurezza alimentare e la salute animale della UE (SCFCAH) ha innalzato la soglia dello zero tecnico. Mentre prima la contaminazione da OGM nei mangimi era uguale a zero, oggi lo zero è pari a 0,1%, perché a quanto pare non è più possibile evitare contaminazioni da colture OGM. Queste norme sono applicate ai mangimi per gli allevamenti e sono specifiche per il mais e la soia, che oggi vengono importati da Stati Uniti, Brasile e Argentina, che da soli coltivano l’80% delle sementi OGM nel mondo. […] Le misurazioni delle strumentazioni sono in grado di rilevare fino allo 0,01 %, […]. (pp. 173- 174)
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Dal 1996 al 2010, secondo lo ISAAA (International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications, Servizio internazionale per l’acquisizione delle applicazioni agrobiotecnologiche) le superfici coltivate a OGM hanno registrato una crescita dell’87 % e hanno superato il miliardo di ettari. Solo nel 2010 le colture OGM sono aumentate del 10% rispetto all’anno precedente, cioè di 14 milioni di ettari. Più del 59% della popolazione mondiale vive nei 29 Paesi che coltivano piante OGM. Di questi, 19 sono Paesi in via di sviluppo. Sempre secondo le stime dello ISAAA, sarebbero 15,4 milioni gli agricoltori che si sono affidati alle coltivazioni OGM: circa il 90% sono piccoli agricoltori di Paesi in via di sviluppo. Sono stati risparmiati 393 milioni di kg di pesticidi e 18 miliardi di kg di CO2 per un traffico mondiale evitato corrispondente a 8 milioni di autovetture e si sarebbe addirittura salvata la biodiversità grazie al risparmio di ben 75 milioni di ettari di terreno, e sarebbe migliorata la condizione economica di 14,4 milioni di piccoli agricoltori. Questo è ciò che si legge nel Global Status od Commercialized Bitech/GM Crops: 2010 di Clive James per lo ISAAA […]. (pp. 174-175)
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Le colture OGM […] pongono dei limiti etici ed economici. Le sementi geneticamente modificate possono essere brevettate e diventare patrimonio di poche aziende dando vita a un monopolio che rende il cibo, la base della vita, proprietà di pochi. Ma non solo le colture OGM sono soggette a brevetti. Addirittura anche le coltivazioni che non hanno nulla a che vedere con la manipolazione dell’uomo: […]. Nel 2010 era stato dichiarato che non si potevano brevettare i processi per l’allevamento di animali e piante. Ma nel marzo 2011 l’EPO ha registrato il brevetto di un melone ottenuto con un miglioramento tradizionale, non OGM. Infatti secondo l’EPO non è brevettabile il miglioramento genetico in sé ma i prodotti che se ne ottengono, perché considerabili alla stregua di un’invenzione, di cui è quindi necessario proteggere la proprietà intellettuale. (p. 178)
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[…] agricoltura di conservazione […]: lavorare il terreno meno in profondità, mantenere la copertura organica del suolo, lasciare sul suolo i residui organici, diffondere la rotazione delle colture cerealicole con quelle leguminose per arricchire il terreno. […] La FAO calcola che l’impiego di un’agricoltura conservativa potrebbe ridurre fino al 60% i costi energetici e fino al 30% quelli di acqua. Le sperimentazioni svolte dalla FAO in 57 Paesi in via di sviluppo hanno portato a un aumento delle rese di circa l’80%. (pp. 178-179)
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Aumentano le persone da sfamare: nel 2030 saremo 8 miliardi. (p. 181)
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Lester Brown: «Nel mondo ogni persona beve in media quasi 4 litri d’acqua al giorno, ma ne sono necessari 2000 per produrre il cibo che consumiamo quotidianamente, 500 volte quella che beviamo. […]». (L. Brown, Piano 4.0, Edizioni ambiente, Milano, 2009) (p. 182)
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L’agricoltura […] a causa del grande impiego di energia da combustibili fossili è diventata un sistema produttivo in costante debito energetico. […] viene consumata più energia di quanta ne viene prodotta. 3 tonnellate di combustibile per produrne 1 di fertilizzante; per ogni caloria di cibo ne vengono consumate almeno 10 di combustibile (senza contare l’energia investita per l’estrazione, la raffinazione e il trasporto). Per ottenere 1 kg di farina servono 22 g di petrolio, e per produrre 1 kg di carne 193 g, circa 9 volte di più. (p. 183)
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[…] Come si legge nel comunicato della FAO, la produzione alimentare totale pro capite destinata al consumo umano è nei Paesi ricchi di circa 900 kg l’anno, quasi il doppio dei 460 kg che vengono prodotti in quelli più poveri. Si spreca 1/3 del cibo, ovvero 1,3 miliardi di tonnellate: nei Paesi in via di sviluppo il 40% delle perdite avviene nella fase del dopo raccolto e nella lavorazione, mentre nei Paesi industrializzati più del 40% delle perdite avviene a livello di rivenditore e di consumatore. (p. 184)
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La quota di terreno arabile per persona sta diminuendo: da 0,38 ettari del 1970 siamo scesi a 0,23 ettari nel 2000 e si prevede di arrivare a 0,15 nel 2050; abbiamo perso ormai il 40% del suolo, eroso a causa dell’aratura del terreno; il 20% delle terre irrigate nei Paesi in via di sviluppo ha problemi di salinità; il 30% delle razze animali da allevamento è in via di estinzione; per le piante, l’erosione genetica dal 1900 a oggi è arrivata al 75%; 250 milioni di persone abitano in zone diventate desertiche e un altro miliardo vive in terre minacciate dalla desertificazione; dal 1990 a oggi abbiamo perduto ogni anno 14,6 milioni di ettari di foreste naturali. Aggiungiamo alcuni dati tutti Italiani: secondo le stime del WWF, il 15% della flora è a rischio estinzione; la perdita di suolo è molto veloce: 110 kmq all’anno, equivalenti a 30 ettari al giorno; tra il 2000 e il 2009, 400.000 imprese agricole hanno chiuso e si prevede che entro il 2015 se ne perderanno altre 500.000 del 1,630.420 attivo oggi. (pp. 184-185)
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Nel 2050 nelle città abiteranno 3,5 miliardi di persone in più […]. L’agricoltura urbana nei Paesi poveri è già oggi un modo per sfamare le famiglie più indigenti. Nel 2020 i cittadini poveri saranno il 45%, ovvero 1,4 miliardi di persone. […] La conta degli orti urbani è in crescita: oggi sono già 130 milioni in Africa e 230 milioni in America Latina. Ma per disinnescare la bomba ancora molto dovrà essere fatto: nel mondo ci sono 800 milioni di contadini urbani che, secondo il World Watch Institute, producono il 15% del cibo consumato. (p. 195)