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 2012  novembre 30 Venerdì calendario

CLAUDIO ABATE - L’UOMO CHE FOTOGRAFÒ IL TEATRO-SCANDALO DI CARMELO BENE


Quando scoppiò la baraonda infernale, Gesù Cristo non poté far altro che spegnere tutte le luci del teatro, e nascondere alla vista del pubblico il delirante apostolo Giovanni che ne combinava di cotte e di crude. Per nostra e sua fortuna, Claudio Abate aveva montato il flash sulla sua Rollei e scattò a ripetizione, «saettando tempestivo su quel disdoro». Così le sue fotografie salvarono la carriera ancora in erba del più controverso, amato-detestato provocatore, demolitore e ricostruttore tra i nostri attori: Carmelo Bene.
Atti osceni in luogo pubblico, turpiloquio, vilipendio e oltraggio: mai tanti reati contestati a una singola rappresentazione teatrale. Ma quella sera di quasi cinquant’anni fa al Teatro Laboratorio di Roma successe di tutto, e tuttora su quel che accadde circolano versioni contraddittorie. Cristo ’63 era un canovaccio più che un testo teatrale, doveva svolgersi ogni sera in modo diverso secondo l’estro e la composizione variabile del cast. Non si andò oltre la prima: al culmine dell’azione Alberto Greco, pittore argentino che vestiva (ma se li tolse presto) i panni dell’apostolo Giovanni si scagliò contro il pubblico ricoprendolo di quella che il verbale di polizia poi definì «melma vischiosa e impasto» (erano gli spaghetti al sugo dell’Ultima Cena), poi si spinse fino a «irrorare con scrosci di urina» le prime file della platea, nelle quali sedeva nientemeno che l’ambasciatore argentino con consorte e addetto culturale, che non la presero niente bene. Intuendo il delirium destruens in arrivo, il giovanissimo Carmelo Bene nei panni di Gesù si era già precipitato al quadro elettrico, e il buio fu. Ma non per Abate, il fotografo di scena, che cominciò a scattare alla cieca. Fu grazie a quelle foto che, dopo essere stato condannato a dieci mesi in contumacia, spettacolo ovviamente sospeso e teatro sequestrato, Bene riuscì a dimostrare in appello che non era stato lui l’autore delle sgradevoli annaffiature. «Benedette foto!» esclamava ancora con sollievo parecchi anni dopo, nella sua autobiografia, «causa della mia assoluzione per non aver commesso il fatto».
«Almeno quelle le avrà guardate», bofonchia Abate maneggiando gli ingrandimenti delle sue testimonianze a discolpa, cavate fuori dopo tanti anni da un foglio di provini miracolosamente risorto nel suo archivio, perché «i negativi se li tenne il tribunale e chissà dove finirono». Lo avrà fatto? Nei dieci anni in cui Abate fu il suo fotografo di scena, autonominato e volontario, Bene non degnò mai di uno sguardo le sue foto. «Figuriamoci poi pagarmele», ride Abate, che sta per compiere settant’anni, ma era un ragazzino quando bussò alla porta scalcagnata del primo palcoscenico di Bene, di sei anni appena più anziano di lui: «Erano tempi interessanti e io volevo conoscere persone interessanti». Di Bene aveva sentito parlare al caffè Notegen di via del Babuino, incrocio di tutte le avanguardie più irregolari della Capitale, dove il ragazzino Claudio incrociava cercando volti e soggetti per le sue incuriosite, appassionate e oggi preziose fotocronache di un’epoca di eccezionale fermento artistico.
Bene lo incluse nella compagnia senza problemi, o ovviamente senza una lira di compenso, anche se Abate passava in bianco le nottate dei debutti per poter affiggere le fotografie di scena già la mattina dopo, nella vetrinetta all’ingresso del teatro. Tutto gratis, salvo qualche scatto che ogni tanto gli acquistava Fabio Mauri per Sipario. «Potevo permettermelo: a quell’epoca facevo foto per Playmen, pagavano sontuosamente, e il dopolavoro era tutto mio». Restò con Bene per dieci anni, «gli anni delle cantine», dei teatri improvvisati e di quelli faticosamente affittati o espugnati, gli anni di Salomé, di Faust e Margherita, Il rosa e il nero, Nostra Signora dei Turchi, scattando dietro le quinte e sulla scena, quasi mai alle prove «perché con Carmelo il teatro si avverava solo col pubblico presente», accumulando una documentazione insostituibile, sapiente, unica: di molti dei primi lavori di Bene queste sono le uniche testimonianze visuali superstiti.
Però mai una volta che volesse vederle, il mattatore, le foto di Claudio. Proprio lui, Bene, che riempiva i palcoscenici di specchi perché li considerava la «prova del corpo», non riconosceva alcuna autorevolezza allo specchio di carta, immobile e monocromo. Per lui, Abate era uno del gruppo, «facevo parte della scena, potevo muovermi anche sul palco con la fotocamera durante la recita, il pubblico si aspettava di tutto, mi considerava un elemento della rappresentazione». Per la compagnia era una presenza familiare, un compagno fisso allo scopone scientifico dove «Carmelo era imbattibile, memoria di ferro, non perdeva di mente una carta».
E allora guardiamocele noi queste Benedette foto! (titolo della mostra) ritrovate e finalmente rese pubbliche al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 4 dicembre fino al 3 febbraio, nel decennale della morte di Carmelo Bene, finalmente riscoperte come opere a parte intera e non come documenti, dopo decenni in cui «la fotografia di teatro, in Italia, non interessava a nessuno». E scopriamo che sono un esperimento di lettura critica, sono un laboratorio di interpretazione del suo teatro. Cosa resta del teatro di Bene se gli sottrai il suono, la fonazione inconfondibile di quella voce; cosa ne resta se gli sottrai i gesti lenti e ossessivamente ripetuti con cui invadeva la scena?
Fotografare il teatro è la più difficile fra le cose che sembrano facili. La scena sembra già pronta, plastica, composta dal regista di fronte alla lente: come pescare in un acquario. Ma come sanno bene i grandi fotografi di scena, la rete risale spesso vuota: il teatro non è solo quel che si vede. Non bisogna documentare, bisogna tradurre. La sfida tecnica dei vuoti e delle ombre profonde che Bene imponeva alla sua «macchina attoriale», Abate lo affrontava avvicinandosi all’azione, con tempi di esposizione di un ottavo di secondo e poi con autentiche capriole tra gli acidi in camera oscura, che finivano per sfocare il movimento, ma diventavano una sorta di decostruzione del gesto in qualche modo parallela a quella che Bene operava sul testo e sul suo stesso corpo. «Bene era un uomo calmo, concentrato sulla sua arte, sicuro di sé: mi lasciò fare quel che volevo». Che problemi poteva avere ad apparire in foto uno che scrisse di sé «Sono apparso alla Madonna»? Per catturare l’anima di uno così, servivano foto benedette.
Michele Smargiassi