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 2012  novembre 30 Venerdì calendario

JAVIER MARÍAS - AMORE. NOME COMUNE DI COSA. ASTRATTO, MOLTO ASTRATTO


BARCELLONA. Un’ora? «Che ne direbbe invece di due?» rilancia Javier Marías. Mai incontrato in vita mia uno scrittore che correggesse al rialzo la durata di un’intervista. Ma dimenticavo che lui detesta la fretta. Anche i suoi romanzi l’hanno in massima antipatia. Lì la lentezza non ha nulla di languido o di estenuato: è solo il tempo tecnicamente, diabolicamente necessario per smantellare ogni ovvietà; per inoculare, articolare il sospetto che le cose potrebbero essere diverse da come ce l’hanno, o ce le siamo, sempre raccontate. In questo senso, l’ultimo libro di Marías, che si intitola Gli innamoramenti, non fa eccezione.
Sintesi brutale: nei beaux quartiers di Madrid c’è una coppia come non se ne fabbricano più. Sono sposati, benestanti, non giovanissimi ma ancora belli, soprattutto felici. Con due meravigliosi bambini. Ogni mattina, prima di andare al lavoro in una casa editrice, una donna di nome Maria osserva quei coniugi al caffè. Senza scambiarci una parola, li studia, li ammira, li ama quasi. Finché un giorno apprende che non li rivedrà mai più assieme. Perché lui è stato ammazzato per strada, accoltellato da un posteggiatore abusivo, mezzo clochard fuori di testa. Sfiga. Poveraccio. Pratica archiviata? Si. Ma. Forse non tutto è così fortuito. Forse il caso è stato telecomandato. Però da chi? E perché?
Come i migliori Marías, anche Los enamoramientos è un libro di perfida onestà. Irretisce, trascina, irrita, a mezzo digressioni frustra magistralmente nel lettore la bulimia di trama. Eppure una trama ce l’ha. E gonfia di suspense. Ma non ha niente del giallo. Anzi, ne ordisce la negazione più atroce. Perché tratteggia un mondo – terribilmente plausibile – dove i colpevoli non solo non vengono puniti, ma nemmeno individuati. E per il semplice motivo che a nessuno frega più un tubo di investigare, appurare, scoprire. Ma dal romanzo escono malconce anche altre cose: dalla devozione per i morti, all’amore. O meglio, l’innamoramento. E la sua mistica: «Secondo una lunga tradizione, l’innamorato è una creatura positiva. L’amore dovrebbe migliorarci. Invece dipende» dice Javier Marías nell’hotel barcellonese Casa Fuster, pescando una sigaretta dall’astuccio. «Ho conosciuto persone nobilissime che l’amore ha spinto alle peggiori meschinità, a commettere cose orribili».
Omicidi inclusi?
«Beh, il cosiddetto crimine passionale è un estremo. In Spagna come in Italia, immagino non lo consideriamo più con la stessa indulgenza di un tempo. Però al movente amoroso si continuano ad accordare attenuanti. A chi soffre per amore è dovuto rispetto. Quasi che l’amore giustificasse tutto. Che la sofferenza fosse di per sé un merito».
Il libro è anche una cupa riflessione sull’impunità.
«Le responsabilità tendono a sfumare in una nebulosa. La giustizia è sempre più percepita come qualcosa che non riguarda Me. Ma giudici, avvocati, poliziotti, insomma: professionisti. Fino a non moltissimi anni fa, la scena di un tizio riverso per strada con la folla che tira dritto era quasi un cliché di New York. Ormai è diventata abituale anche da noi. E al massimo che si fa? Si chiama un’ambulanza col telefonino. Se possibile, restando anonimi. Perché non tocca a Me assistere quel tizio. Sapere cos’ha. Meglio non sapere. Anche il semplice sapere è un impegno».
Nel senso?
«Se lei si fosse presentato a questa intervista confessandomi: Marías, ho appena sgozzato mia madre, lei sarebbe sicuramente nei pasticci, ma anch’io lo sarei. Mi chiederei: e adesso, che cosa ne faccio di questa verità? In un altro libro ho scritto che, grazie alle palpebre, possiamo evitare di vedere. Ma non abbiamo palpebre sulle orecchie per impedirci di sentire».
Qui qualcuno origlia una contro-verità forse terrificante. Ma poi – magari per amore – non cerca giustizia, neppure indaga. Si legge: «Non siamo più ai tempi in cui tutto doveva essere giudicato, o almeno conosciuto».
«È una conclusione pessimistica. Cinica. Ma credo rifletta ormai una parte di noi, delle nostre società. D’altronde, la colpevolezza suscita sempre più dubbi. Le faccio un altro esempio».
Prego.
«Anni fa, una famosa presentatrice della tv spagnola pubblicò un romanzo. In seguito venne fuori che parti del libro erano state plagiate da un bestseller tipo quelli di Danielle Steel. La presentatrice si difese: Non ne sapevo niente. Il mio "negro" mi ha ingannata. Molti ebbero la tentazione di crederle. Il fatto che si fosse servita di un "negro" era scivolato in secondo piano. Non appariva più così grave».
Torniamo alla sua anatomia dell’innamoramento. Più che altro un’autopsia. L’enfasi dell’incontro, dell’amour fou, viene ricondotta alla banalità, alla statistica, alla burocrazia del caso.
«Innamorandosi, tanti si sentono come destinati l’uno all’altro. Quasi che tutto fosse avvenuto per magia. Ma non è che una bella favola. In realtà, moltissimo dipende da fattori prosaici, tipo: dove abitiamo, che posti e persone frequentiamo, chi è libero – cioè non accoppiato – in quel momento, eccetera».
L’innamoramento non è che «una riffa di fine estate».
«Sì, nel romanzo c’è questa immagine della lotteria a fine stagione, dove i partecipanti sono pochi e giocoforza si accontentano degli scarsi premi rimasti».
Non solo. Lei rincara, sostenendo che in amore siamo spesso semplici «sostituti». Sostituti di chi?
«Oh, ma di persone che l’altro ha perduto. O che non è riuscito a conquistare, a fare innamorare, a tenersi accanto. Agli occhi dell’altro incarniamo la nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato».
Anche in questo romanzo gli ambienti, borghesi, sono restituiti a tratti veloci. Lei non ama descrivere.
«No. Che ci importa di come sono fatti, per dire, i bottoni di un tizio? In letteratura la descrizione aveva un senso quando non c’era una società visiva come la nostra. Quando non esistevano la tv o il cinema. Eppoi, per farci vedere davvero qualcosa o qualcuno basta un dettaglio. In Madame Bovary, Flaubert scrive del marito di Emma che era uno che dopo mangiato si passava la lingua sulle gengive per rimuoverne pozzetti di cibo. E basta. Ecco, in quel momento noi vediamo quell’uomo».
Alla fine, lei dice, dei romanzi importano poco le trame.
«Sì, le dimentichiamo. A restarci dentro sono una scena, un pensiero, un’atmosfera».
Il personaggio di Maria. Un’oscura redattrice che però lancia sguardi velenosissimi, ed esilaranti, sulla society letteraria. In privato, gli scrittori appaiono come un branco di vanesi. Uno, che si sente Premio Nobel in pectore, chiede alla casa editrice di procurargli addirittura qualche grammo di cocaina.
«La storia della cocaina è inventata. Ma conosco scrittori che si rivolgono all’editore o all’agente perché gli compri medicinali o li accompagni a provare un cappotto».
Altri lasciano debiti paurosi negli hotel. Di uno «si vociferava che nei suoi viaggi si portasse dietro lenzuola e biancheria sporca perché glieli lavassero in albergo».
«In effetti, è quanto si racconta di un grande scrittore latinoamericano».
Maria ironizza pure su qualche «suonato» che nell’epoca del computer scrive ancora a macchina «e al quale si debbono ancora scannerizzare i testi quando li consegna».
«Quel suonato sono io. Non ho computer. Scrivo a macchina. O a mano».
Nel libro, il mondo letterario sembra popolato di bluff. È la sua opinione?
«Non so. Non leggo molti contemporanei. I classici sono più sicuri. Però spesso mi chiedo: come fanno a dire di questo che è bravo, che è nuovo? A me sembra vecchissimo. Spesso non capisco. In altri casi, invece, capisco di non capire. Cioè mi rendo conto che non sono più contemporaneo di tante cose a me contemporanee».
Maria stronca i divi della letteratura. Eppure le stroncature sono ormai merce rara.
«Venire stroncati non fa piacere a nessuno. Ma contro una critica demolitrice è meglio fare gli scongiuri in privato, praticare il vudù in casa, che lamentarsene pubblicamente. Del resto, belle o brutte, le recensioni non andrebbero mai prese troppo sul serio. Di un mio libro, un importante studioso tedesco disse che era il più grande romanzo in spagnolo dai tempi di Cento anni di solitudine. Nei fui lusingato. Ma nemmeno per un attimo ho pensato di prendere quelle parole troppo sul serio. Se lo fai sei perduto. Se dipendi dalle critiche non scrivi più».
Gli innamoramenti hanno avuto il Premio del ministero della Cultura. Lei però l’ha rifiutato perché da tempo non accetta riconoscimenti, e soldi, di Stato.
«Non voglio avere rapporti con le istituzioni ufficiali. Non voglio si pensi che sono un favorito o che goda di protezioni. Ho espresso riconoscenza per il Premio, cercando di spiegare il mio rifiuto con educazione e senza demagogia».
L’hanno criticata lo stesso.
«Qualcuno ha detto: perché non ha preso i soldi per devolverli in beneficenza? Non l’ho fatto perché quella sì che sarebbe stata una mossa demagogica e narcisistica. Che siano loro, lo Stato, a donare i soldi alle biblioteche pubbliche! Quest’anno, in Spagna, le biblioteche hanno budget zero. Vale dire che non potranno comprare nemmeno un libro».
Due big come Philip Roth e Imre Kertész hanno annunciato che non scriveranno più. Lei che ne pensa?
«Mi pare del tutto normale. Hanno dato tanto. Se a sessantun’anni io mi chiedo se continuare o meno, figuriamoci loro. Non sono vecchio, ma ho cominciato presto, quarant’anni fa, e mi sento stanco».
Al punto da smettere?
«Non ancora. Sto lavorando a un nuovo romanzo».
Marco Cicala