Cesare Fiumi, Sette 16/11/2012, 16 novembre 2012
VI RACCONTO L’INFERNO CHE PARTORÌ JIMI, MIO FRATELLO
[Padre truffatore, madre alcolizzata, 4 bimbi nati con un handicap e dati in affido. Leon Hendrix svela infanzia e autodistruzione di un genio] –
Buster avrebbe oggi settant’anni. Avrebbe spento le candeline – lui che bruciò d’un fiato la sua esistenza e, a Monterey, pure la sua chitarra – il prossimo 27 novembre. Avrebbe festeggiato giusto tra l’ennesimo concerto di Bob Dylan a New York – dove Buster divenne Jimi e prese a suonare come mai prima e dopo di lui – e l’ennesimo ritorno dei Rolling Stones, a fine mese a Londra: la città dove Jimi se ne andò, impiccato dal suo vomito, soffocato da tutto quello che fin lì aveva trangugiato – alcol e Lsd, coca e anfetamine – e non solo quella sera.
Era il 18 settembre 1970 quando i giovani afroamericani, che nel ’65 avevano visto morire ammazzato Malcolm X e nel ’68 avevano pianto di rabbia Martin Luther King, persero l’ultimo eroe di quel decennio di diritti e Black Power, acidi strappacuori e fiori multicolori, pugni guantati al cielo e polvere bianca. Se ne andava il nero che sapeva suonare meglio dei bianchi. Che era pagato più di qualsiasi rock star bianca. E che le Foxy Ladies dei bianchi faceva impazzire.
Avrebbe avuto settant’anni quel fil di ferro di James Marshall Hendrix detto Buster, il ragazzo cresciuto nella Seattle che non stava nelle guide turistiche – la famiglia che perdeva i pezzi a ogni parto, la scuola abbandonata per discrimine razziale – e divenuto sei magici fili di corda: capace di intonare Hey Joe e Purple Haze. Pezzi che non sono invecchiati di una nota: così avanti, allora, che nessuno lo ha raggiunto davvero.
Eppure, ora che l’America conferma un presidente nero (e sembra trascorsa un’era geologica da allora), non riesce di immaginarlo Jimi Hendrix a settant’anni. E non per via di un volto mappato di rughe, come quello del vecchio Dylan, o arato con l’erpice dello stravizio, come quelli di Mike Jagger e Keith Richards. Non ci si riesce dopo aver letto Jimi Hendrix. Mio fratello, il libro che gli ha dedicato Leon, quello che lo chiamava Buster (proprio come il giovane Jimi desiderava): il minore degli Hendrix rimasti a casa con mamma e papà. O meglio, con papà, ché quella povera famiglia di Seattle fu una diaspora terribile e ininterrotta.
Racconto sincero e spietato, la biografia di Jimi, per mano e memoria di Leon, non è saggio musicale né catalogo di aneddoti, ma una testimonianza affettuosa e crudele. Leon sorvola su ciò che non ha visto di persona, a cominciare dagli anni trascorsi da suo fratello lontano da Seattle: dal Buster paracadutista nella 101° divisione Airbone per sfuggire al riformatorio fino al successo e alle prime canzoni di Jimi alla radio.
E glissa perfino sull’ultimo atto, visto che sulla scena finale, a Londra, compare – anche se una verità in questo senso non c’è ancora e forse mai ci sarà – solo l’ex pattinatrice della Ddr, Monika Dannemann, una delle tante fidanzate di Jimi (suicidatasi nel ’96), mentre attorno alla sua morte continua ad aleggiare la figura di Michael Jeffery (a cui Leon, nel libro, non fa sconti). E cioè il vecchio manager del cantante, già accusato, in passato, non solo d’aver spiato Jimi per conto della Fbi, ma anche d’aver provocato l’overdose letale (droga, alcol e barbiturici) per intascare l’assicurazione sulla vita della rock star. Prima di morire, nel ’73, in un incidente aereo sui cieli di Nantes.
Epperò della morte di Jimi, Leon parla eccome, ma dall’interno di una cella. Quel giorno di settembre del 1970, il giovane Hendrix stava dietro le sbarre del riformatorio di Monroe, quando «improvvisamente qualcuno urlò nel silenzio del mattino: “Non dirlo neanche per scherzo”. “Eppure è vero, Jimi Hendrix è morto”, disse un’altra voce, l’hanno appena detto alla radio”. “Sta’ zitto”, gridò di nuovo l’altro, “Lo sai che suo fratello sta proprio qui sopra”».
Comincia così la memoria di Leon. E su questa cifra nuda e cruda si snoda la storia familiare che fece da balia al più grande chitarrista rock (ma anche blues, rhythm and blues, soul, hard, psichedelica, funky e altro ancora) di tutti i tempi. Ed ecco papà John Allen, partito per la guerra con Jimi in arrivo. E mamma Lucille, appena 16 enne, troppo giovane e innamorata del bere per aspettare il ritorno dal fronte di un uomo che, presto, si sarebbe diviso tra truffe e bicchiere.
Poi, ecco l’arrivo di Leon e la famiglia che per un po’ si ritrova, prima di spalancare l’uscio alla catastrofe: nasce Joe, affetto «da palatoschisi, una gamba più corta e un piede equino», che finisce in affidamento; è la volta di Kathy Ira, che nasce cieca, alla fine, pure lei “affidata”. Stessa sorte toccata a Pamela. E «solo anni dopo scoprii che mamma aveva partorito un altro figlio all’inizio del ’53. Ma come tre dei fratelli, il piccolo Alfred era nato con un handicap e venne dato in affidamento». Mamma Lucile morirà di cirrosi epatica nel ’58, a 32 anni.
È stata questa l’infanzia di Buster (non ancora Jimi) e di Leon. Che racconta: «Non ho mai visto mio fratello leggere un libro e non ebbe mai buoni voti a scuola, ma sembrava avesse una conoscenza innata su tutto».
Buster che smonta la radio per capire «dove corre la musica»; che imbraccia un ukelele scordato «cercando di seguire le canzoni di Elvis alla radio»; che gioca agli indiani, fiero del sangue cherokee; che abita una povertà ingloriosa per un ragazzino; che salva la vita a Leon, impigliato in un binario mentre sopraggiunge il treno; e che finisce in un brutto giro. A salvarlo, solo quello di “Do” e la passione di chi imbraccia già alla mancina il suo destino di chitarrista imperioso.
Seconda parte: pure Leon vorrebbe suonare ma si perde tra truffe e droga e rapine e Jimi, arrivato al successo, lo riacciuffa ogni volta – come quel giorno sui binari – con pacchi di dollari e aiuti vari, tra un concerto e un backstage. Ed ecco l’inno americano, ben prima di Woodstock ’69, rivoltato come un calzino dalla Stratocaster di Jimi, tra viaggi in limousine e Los Angeles-party, strafatti di sesso, droga & rock and roll («Buster infilò la mano in tasca e tirò fuori pasticche di Lsd» e «c’era un interessante buffet: buste di coca e erba si trovavano tra i vassoi di sandwich»), mentre intorno a Jimi si muovono le leggende maledette di quella stagione hippy di acido e psichedelia, dagli Who a Jerry Garcia, a «Ehi, c’è Janis Joplin laggiù!», in una perenne nuvola di fumo e vertiginosa follia. «Ricordando quei momenti, mi fa strano pensare», scrive oggi Leon, «che quando incontrai Ringo Starr e Paul McCartney, Jim Morrison e Mike Jagger, non avessi la più pallida idea di chi fossero, eppure è la verità. Questa era la Hollywood di allora».
Un affresco lucido (oggi...) e fosco assieme, buono non solo per i patiti di Hendrix. E comunque, per capire come l’eco dell’ultima nota di Jimi sia ancora lontana dallo spegnersi, è sufficiente – senza volare con il libro fino a Londra o negli Usa – restarcene qui in casa. E leggere la delibera di giunta n. 147 del 26 ottobre 2012, con la quale il comune di Lercara Friddi, 7mila abitanti nel Palermitano, «ha deciso di intitolare una via cittadina a Jimi Hendrix». Certo, Lercara Friddi con l’America ha legami speciali se dal paese, all’inizio del secolo scorso, partirono alla volta degli Usa non solo Antonino Sinatra, padre di Frank The voice, ma pure Salvatore Lucania, più noto col nome americano di Lucky Luciano, il gangster considerato il “padre del crimine organizzato”, ma l’omaggio a Buster è davvero singolare. D’accordo, Sinatra e Hendrix incisero entrambi per la Reprise, e l’assolo di Jimi in Wild Thing è forse un omaggio a Stranger in the Night di Frank, ma sembra un po’ poco per una via da intitolare: più probabile la passione unforgettable di qualche assessore.
O forse è solo questione di zolfo, il minerale che ha fatto la storia di Lercara Friddi. Paese sulfureo com’era Jimi, che suonava con la sinistra anche le chitarre accordate per i destri facendo inorridire suo padre, per il quale – ricorda Leon – «essere mancino era un segno del diavolo». E come sulfureo era il suo suono, quasi caleidoscopico. «Voglio mettere del colore nella musica», spiegò un giorno al fratello: «Mi piacerebbe suonare una nota e veder uscire i colori». Be’, Jimi ci riuscì. Anche se da quei colori finì travolto e distorto come Jim (Morrison) e come Janis (Joplin): icona nera di una generazione bruciata, che i trent’anni non arrivò a festeggiare. Buon compleanno, Buster.