Roberto Cotroneo, Sette 16/11/2012, 16 novembre 2012
TI AMERÒ COME UN PAZZO. FINO
AL MANICOMIO [Quando s’innamorò della scrittrice, il poeta soffriva già di crisi ossessive. Ma la gelosia peggiorò la situazione. E distrusse la storia e gli amanti] –
L’albergo Lamone sta sempre lì a Marradi, dà le spalle alla ferrovia. È un edificio giallino con la scritta verde bottiglia, e le tre stelle su una linea un po’ sfalsata. Sotto, il bar “8 marzo” si permette ampie vetrate e tavolini sul marciapiede, quando il tempo e la stagione sono buoni. Mentre la vicina osteria rosticceria è un piccolo locale dalla scritta un po’ naïve. Marradi, come un tempo si sarebbe detto, sta sulla linea Gotica. Appennino tosco-emiliano, zone dove durante la Seconda guerra mondiale, tedeschi e americani sono rimasti in scacco per mesi. Ma quando Sibilla Aleramo e Dino Campana passarono il Natale all’albergo Lamone la guerra in corso era un’altra, perché era il 1916. Le trincee erano altrove e il piccolo paese di Marradi era lontano dalla guerra. Ma Campana e l’Aleramo erano invece dentro un dramma e una storia che di pacifico non aveva nulla e di drammatico proprio tutto.
Dino Campana era un poeta. Un poeta matto, per dirla subito così e non mettere in gioco equivoci. Nasce proprio a Marradi, nel 1885, il 20 di agosto per l’esattezza. Suo padre era maestro elementare, la madre, molto cattolica, avrà sempre un rapporto molto difficile con il figlio. Che Campana fosse “el matt” del paese lo capiscono subito tutti, sin da quando aveva 15 anni ma questo non gli impedirà di studiare e iscriversi all’università. Ma rimaneva inquieto: partiva e tornava, fuggiva in Argentina, con viaggi di cui si sa poco ma che sono testimoniati dai suoi versi. E c’è persino il dubbio che non fosse neanche così matto almeno fino a un certo momento della sua vita. Sibilla Aleramo era più grande. Non si chiamava né Sibilla e neppure Aleramo. Di nome faceva Rina Faccio ed era nata nel 1876 ad Alessandria. Era una donna fatale, bella e famosa da quando aveva pubblicato un romanzo che in parte raccontava la sua storia: Una donna. Manifesto per decenni del femminismo italiano, perché narrava della violenza subita a 15 anni, del matrimonio riparatore e della presa di coscienza e del coraggio di lasciar poi quell’uomo violento e prepotente.
Relazioni pericolose. Sibilla era una sorta di Lou Salomé all’italiana. Grande conquistatrice, eccentrica, scrittrice, ebbe relazioni con buona parte della letteratura italiana, dell’arte, della musica della sua epoca. Scrisse più lettere lei di Benedetto Croce e Giovanni Gentile messi assieme.
Quando Campana la incontra lei ha quarant’anni. Lui quasi dieci di meno. Lui ha già attraversato momenti difficili, e ricoveri per crisi ossessive. Alti e bassi insomma. I suoi Canti Orfici pubblicati a Marradi hanno avuto buona attenzione nel mondo letterario, ma la sua vita è su un crinale balordo. Ha rapporti con Emilio Cecchi e con gli intellettuali dell’epoca che gravitano su Firenze. Ma le sue condizioni di salute non sono buone. Cerca un lavoro, capisce che con la poesia non ci campa troppo bene e nel frattempo abita due stanze in un paesino dell’Appennino, davvero sperduto, che si chiama Casetta di Tiara. Vive con il poco denaro che gli passa il vecchio padre.
È il 3 agosto 1916, ed è mattino presto quando Sibilla e Dino si incontrano la prima volta. Dalla corriera che si arrampica sino al paesino scende un personaggio che nessuno fino ad allora aveva mai visto.
Il primo bacio. Una donna in bianco con un grande cappello: va dritta verso Dino che la aspetta appoggiato a un muretto. Poco tempo prima lei gli aveva scritto, dopo la lettura dei Canti Orfici: «Chiudo il tuo libro, le mie trecce sciolgo». Eccola la seduzione. I Canti Orfici erano e sono indubbiamente un capolavoro, oggi lo sappiamo bene. Sulle trecce di Sibilla si potrebbe discutere, ma l’effetto per Dino è di quelli che non si dimenticano. Lei arriva fino a lì perché sedotta da lui. Lui che aveva condotto un’esistenza priva di sentimenti amorosi fino a quel momento si atteggia un po’ a uomo fatale che non si lascerà coinvolgere. E invece tra i due nasce una passione furibonda, e il termine furibondo non è solo un eufemismo.
Va detto con chiarezza, forse Dino sarebbe impazzito ugualmente del tutto. Soffriva di una malattia venerea, la sifilide, che porta nella sua evoluzione peggiore alla malattia mentale. Certo Sibilla ci mise del suo con un’arte e un metodo invidiabili.
Su questa loro storia è stato scritto molto, in molti libri. Sono state pubblicate le lettere di Sibilla, lo scrittore Sebastiano Vassalli, nella biografia romanzata di Campana, La notte della Cometa, ha raccontato questa storia in pagine bellissime, dieci anni fa è stato anche girato un film: Un viaggio chiamato amore. Ma in realtà nessuno è riuscito davvero a spiegare fino in fondo cosa accadde, a trovare il bandolo, il motivo più profondo.
Uno spiraglio nella mente. Ma cosa accadde? Va immaginato il contesto. Lui è un barbaro poeta, soffre di ossessioni, di cattivi pensieri, non dorme la notte, ha la percezione del suo talento, ma anche addosso la tristezza e la pacata gentilezza di chi trova ogni tanto uno spiraglio nella sua mente che gli consente di capire con più profondità di altri. Lei è lei, e perdonate l’espressione. Sempre al centro delle cose, sempre una nota fuori posto sopra l’ultimo rigo del pentagramma: quando scriveva, quando parlava, quando amava, quando viaggiava. Un’eroina romantica delle lettere con un talento per il cattivo gusto, ma anche con un talento e un coraggio per il vivere con generosità.
Quando si incontrano lei concede a Dino una passione che lui non pensava di poter mettere nei sensi, ma al massimo nella letteratura, nell’amore per i versi e per i poeti. Dino non resiste affatto, tanto per capirci. Sibilla lo seduce nel senso etimologico del termine. Lo porta su una nuova strada: «Sei mai stato amato, Dino? Tremavi...». Il luogo lontano da ogni civiltà dove Dino si era rifugiato fece il resto. Dino è un provinciale, anche Sibilla, ma lei lo nasconde meglio. Lui ha 31 anni ed è inesperto, lei ha decisamente troppi uomini. La follia iniziale di Campana è nella gelosia. Lei gli promette che esisterà solo per lui. Lui è attraversato dai venti freddi della sua mente, come li chiama lui. Dino li conosce bene gli amanti di Sibilla. In quel periodo si chiamano Cardarelli, Carrà, Prezzolini, Soffici, Papini, per fare i primi nomi. Ma in quei pochi giorni di agosto lui trema per lei e basta, e lei dice di amarlo. Probabilmente lo ama davvero. In un modo che non si capisce troppo bene, come non si capisce mai troppo bene quando l’amore è in questo modo.
Quel bruciante segreto. Dopo quei pochi giorni intensi Sibilla riparte, con la corriera, con i bagagli, e con il cappello bianco. Alla fine di settembre si incontrano di nuovo. Questa volta è Dino a raggiungerla a Firenze per poi andare a Pisa. Lui non vuole rimanerci con lei a Firenze: forse è geloso, forse capisce che le sue crisi potrebbero rivelarlo a tutti. Trascina Sibilla in una villetta in affitto, a Marina di Pisa, e comincia la danza della follia. Lui le chiede dei suoi amanti, lei li ammette, lui le sputa in faccia, poi la picchia; lei fugge, piena di lividi, percossa, ma anche appassionata. Sibilla chiede aiuto all’amico Emilio Cecchi, grande critico, che le vede un occhio pesto e le fa promettere di non incontrare Dino mai più.
Ma la promessa serve a poco. La sofferenza brucia sempre fino alla fine, chiede il sacrificio sull’altare della passione. Lei torna, eccome se torna. Mentre Dino si trasforma ogni giorno. È un poema maledetto quello che stanno scrivendo. Ora le dà del voi, e la tratta come una prostituta, una donna con la quale può atteggiarsi a gigolò. Manda lettere agli amici dove dice di «aver trovato una sistemazione come ganzo di una nota puttana».
In realtà il suo amore per Sibilla è incontrollato. E per quanto gli appassionati lettori di Campana, un vero e proprio culto postumo, ritengano Sibilla una cinica, probabilmente lei era decisamente attratta dal lato violento e folle del poeta.
Si stabiliscono a Settignano, da un’amica svedese che rimane sgomenta dalle liti e impaurita che tutto possa degenerare. «Saremo un gemito solo», scrive Sibilla, ma i gemiti di passione si mescolano alle urla, al dolore, alle botte, alla testa di Dino che sembra scoppiargli, alle sue notti insonni dove lui vaga senza un centro con ossessioni che non sa controllare.
Nonostante questo decidono di passare il Natale assieme, in una Marradi, il paese natio del poeta, dove ci sono solo vecchi e nessun amico; “el matt” porta Sibilla in un albergo, il Lamone appunto, che mostrava allora tutta la sua parte squallida. È il Natale del 1916.
Qui accade qualcosa di sottile e terribile, come se l’amore, la passione, avesse generato il disastro aggravando una follia presente ma non così devastante. È come se Sibilla, consapevole di quanto stesse accadendo, fosse stata capace di incoraggiare la malattia mentale, come un dolore da portarsi dentro, una colpa finalmente, la colpa di sua madre, la madre di Sibilla, che aveva tentato il suicidio quando lei era bambina.
La follia attrae le menti che hanno conosciuto e subìto la follia, e le lega assieme. Dino chiede aiuto a Sibilla, comprende di essere in pericolo. Sibilla lo porta da uno psichiatra. La pazzia di Dino viene dall’infezione venerea e lo psichiatra spiega a Sibilla che non c’è niente da fare, che lui dovrà curarsi a lungo; e la prega di andare via, perché non è possibile, perché non c’è scampo, e rischia di ammalarsi anche lei di sifilide. Sibilla decide che non lo vedrà più: è il 21 gennaio 1917. Lui va in ospedale per curarsi, lei non dovrebbe più farsi viva. Sarebbe meglio così. Sarebbe, appunto. Ma tutto questo non accade. Perché dopo un mese di cure lui è più calmo e lei cosa fa? Comincia a mandargli lettere. Appassionate, si intende. Lui le chiede di tornare. Lei risponde di no, ma poi scrive: «Ti amo ancora». Cominciano missive appassionate e d’amor perduto. Peccato che è un vero e proprio gioco a nascondino. Sibilla gli scrive: non mi troverai mai. Ma gli fa capire dove si trova. Lui parte per raggiungerla, e lei si sposta da un luogo a un altro, da una città a un’altra, accentuando la disperazione di Dino e probabilmente la sua follia.
Perché lo fa? A leggere con attenzione il carteggio di Sibilla con Dino perché lei vive l’amore profondo e intenso come distruzione totale. Lo cerca e fugge, dice di amarlo e lo schiva. Forse se Dino fosse stato meno pazzo sarebbe stata la sua vera storia d’amore. Ma se fosse stato meno pazzo Dino e Sibilla non si sarebbero non amati (e dico proprio non amati) in quel modo.
Solitario e triste è il finale. Il finale di questa storia è immaginabile. Sibilla a un certo punto smise davvero di cercarlo, ma smise che Dino non era più in grado, completamente, di vivere e persino di scrivere. Fu internato in manicomio un anno dopo, nel 1918, e sottoposto a continui elettroshock. Non uscì mai più fino alla morte, nel 1932. Di lui rimangono i meravigliosi Canti Orfici e i colloqui con il suo psichiatra, Carlo Pariani. Sibilla ha vissuto fino al 1960, diventando l’icona della passione, del movimento femminista, cambiando amanti, spesso giovanissimi, fino agli ultimi giorni.
Non sappiamo se sia mai andata alla chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo dove sono conservate le ossa di Dino. E neppure che amore sarebbe stato il loro se la vita li avesse aiutati. Lei scrisse che lui si meritava il castigo: «Per le rose che furono calpestate presso l’orlo della mia veste. Io ch’ero la vita». Lui ormai la vita l’aveva rinchiusa dentro le mura del manicomio. In una lettera a un amico, due anni prima di morire, scrisse: «Tutto va per il meglio, nel peggiore dei mondi possibili». Ma in quel peggiore dei mondi possibili Sibilla non c’era più.