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 2012  dicembre 02 Domenica calendario

I VALORI DEL FARMACO GRIFFATO

Agli italiani, si dice, non piacciono i farmaci generici, cioè quelli venduti con i nomi dei principi attivi, invece che con quelli inventati dalle industrie che quella sostanza chimica o biologica hanno scoperto, acquisito o fatto fare in laboratorio. Un farmaco diventa generico, cioè può essere prodotto da un’altra industria a costi più bassi, quando scade il brevetto che concede dei diritti commerciali all’impresa che ha dimostrato l’efficacia clinica del principio attivo. I farmaci generici hanno un prezzo inferiore e quindi convengono a chi paga le spese: sistema sanitario, assicurazione o cittadino. I generici sono gli unici farmaci che normalmente si può permettere chi vive nei Paesi in via di sviluppo e anche in occidente ormai il consumo supera mediamente il 50% con punte dell’80 nei Paesi nordeuropei e negli Stati Uniti. In Italia, invece, si rimane intorno al 20 per cento.

Perché accade questo? Quali libere riflessioni si possono fare a partire da un fenomeno che viene additato come conseguenza della disinformazione dei cittadini italiani? Sul perché gli italiani non comprano i generici la risposta prevalente è che sono disinformati. Ma la cultura, si capisce anche dai temi del Manifesto promosso da questo giornale, non è riducibile a informazione. Una risposta più appropriata potrebbe essere che non si fidano. Mentre sul piano dell’informazione le loro scelte sono influenzate dai medici, che in Italia intrattengono più legami comunicativi con l’industria rispetto ai colleghi che lavorano per esempio nei Paesi nordeuropei. Ora, la mancanza di fiducia dipende sia dagli scandali sanitari sia dal fatto che la classe politica e medica tratta i pazienti/cittadini italiani come bambini, nonostante viviamo in età di consenso informato. Ciò ha come conseguenza che i pazienti si fidano soprattutto dei medici, i quali sono appunto sottoposti a una comunicazione sul farmaco da parte dell’industria, che a volte è più efficace e documentata di quella prodotta e diffusa dal sistema sanitario.

Si potrebbero svolgere analisi tecniche, a livello cioè dei fattori economici, farmacologici, psicologici e di controllo/sicurezza portati a sostegno o contro la validità data per assoluta di promuovere politicamente il consumo di generici sulla base del fatto che riducono la spesa sanitaria. Il ragionamento appare in prima battuta lineare: se due sostanze sono chimicamente identiche, ma hanno prezzi diversi, è irrazionale comprare quella che costa di più. Ma questo discorso dovrebbe essere l’obiettivo in Italia anche per altri settori, come la produzione agricola, dove invece si impedisce l’innovazione e la concorrenza invitando i consumatori a pagare di più il cibo. Nella realtà, come normalmente accade, i fattori in gioco nell’azione di un farmaco (chimici, biologici, psicologi e politico-economici) stanno tra loro in rapporti complessi. E come in tutte le semplificazioni e gli approcci ideologici, anche in questo caso si perdono informazioni importanti e si possono fare anche dei danni impostando e decidendo in termini meramente aritmetici su un problema che richiede l’uso di ragionamenti a più ampio raggio e che devono far uso di dati statistici.

La refrattarietà degli italiani verso i farmaci generici induce a una riflessione più generale su cosa crea fiducia nei cittadini che vivono in sistemi democratici, per esempio rispetto agli strumenti proposti dallo Stato o da privati per curare la propria salute. Una letteratura imponente mostra che l’elemento chiave è l’affidabilità, ovvero la percezione che si ha sulla base di una storia e di un modo di relazionarsi rispetto a chi offre un servizio o propone uno scambio economico. Ora, il grado di affidabilità di qualcuno, soprattutto riguardo al problema di fornire un aiuto nella cura della salute, dipende dal patrimonio di informazioni e conoscenze a cui questi ha accesso effettivamente, da quanto in precedenti situazioni ha risolto con successo i problemi o è stato capace di rispondere degli errori, correggerli e dalla disponibilità di dialogare con i cosiddetti stakeholder o portatori di interessi (nella fattispecie i pazienti). Nelle democrazie liberali e fondate sempre più sulla conoscenza, questi sono elementi necessari sia a livello dell’impresa sia sul piano delle istituzioni politiche.

Ebbene nell’ambito della discussione su generici vs "griffati" si dimentica qualcosa. Nell’assecondare l’adesione emotiva al l’idea, che sembra intuitivamente valida, cioè che sulla salute non ci si dovrebbe speculare e che i farmaci devono costare poco in assoluto, non ci si accorge che si rischia di buttar via, con l’acqua sporca del tanto vituperato profitto, anche quella particolare coniugazione di ricerca scientifica, libero mercato, protezione intellettuale e controllo etico che ha dato luogo all’impresa farmaceutica per come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo mezzo secolo. Che tutti i dati empirici ci dicono sia stata la principale fonte dei guadagni in salute. Al di là del fatto che il declino dell’impresa farmaceutica sta avendo anche risvolti occupazionali negativi, non sembra esserci una strategia per preservare in qualche modo il patrimonio epistemologico che ha generato la cultura del farmaco in occidente. Considerando che si sta tagliando anche la ricerca pubblica linearmente, quindi rendendo il Paese non più competitivo nei settori di frontiera della farmacologia basata sulla genomica.

È vero che l’Italia segue il trend occidentale. Che nell’ultimo decennio è stato di apprestarsi a consegnare, dopo la manifattura dei generici e dei griffati, anche la scoperta e sperimentazione dei nuovi farmaci ai paesi asiatici emergenti - la Cina in primo luogo. Ma il punto è proprio questo: è sensato discutere solo di come risparmiare soldi, senza ragionare anche su come evitare di abdicare alla produzione creativa, allo sviluppo applicativo e alla regolamentazione d’uso secondo principi etici liberali di strumenti fondamentali per il benessere umano, come i farmaci? Ha senso diventare un mercato povero e con molti malati di patologie cronico-degenerative che dovrà rifornirsi di farmaci pensati secondo un’economia epidemiologica, demografica, industriale e di consumi culturalmente diversa?

So bene che tutto sta accadendo secondo dinamiche necessitanti, di cui i fattori economici sono la chiave. Ma l’intelligenza di capire criticamente, e quindi almeno provare a discutere se non sia il caso di allarmarsi per quel che ci aspetta, e che aspetta i nostri figli, potremmo provare a non abdicare d’usarla. Nel campo della cultura d’impresa legata al farmaco l’Italia avrebbe esperienze concrete, cioè capacità imprenditoriali e collaborazioni internazionali finalizzate all’innovazione in settori clinici strategici, da valorizzare sul piano di un disegno politico-economico per agganciare davvero la crescita. Ma non viene alcun segnale dal governo e dalla politica. Tranne informarci di quel che già sapevano, cioè che il nostro sistema sanitario a breve non sarà più economicamente sostenibile. E questo non può che indurre a un pessimismo allarmato, se questa constatazione non si traduce in investimenti per studiare nuove strategie e opportunità.