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 2012  novembre 30 Venerdì calendario

SULLA SCAPIGLIATURA. ERA UNA MILANO DA BERE. E GLI SCAPIGLIATI SE LA BEVVERO TUTTA


Milano, un tardo pomeriggio del settembre 1862. Alla famosa osteria della Nôs, in una città molto diversa dall’attuale, “un milanin” per dirla con De Marchi, un frequentatore abituale, letterato di crescente fama, fissa il conto delle bottiglie consumate, poi gli occhi stretti a fessura dell’oste, e quasi ritorna sobrio. Riflette a lungo, quindi propone un accordo: pagherà in natura, scrivendo un certo numero di odi e poesie magnificanti le libagioni e le mescite del posto. Creditore tra i più accomodanti, l’oste accetta l’immaginifico scambio e da quel giorno, se “carmina” continua a non dare “panem”, darà almeno un po’ di vino.
È una delle storielle che all’epoca, quando l’Italia era appena venuta al mondo, circolavano a proposito di Giuseppe Rovani e dei suoi amici, gli scapigliati, come lui devoti alla bottiglia, alla poesia e all’anticonformismo in politica. Movimento letterario e artistico fra i più significativi nella cultura italiana del XIX secolo, la Scapigliatura prese il suo nome da un altro letterato di spicco nelle bettole e nei salotti letterari di quegli anni, Cletto Arrighi, nom de plume di Carlo Righetti, avvocato di professione, commediografo e romanziere tra una causa in tribunale e l’altra, che sempre nel 1862 pubblicò un “romanzo contemporaneo” intitolato La Scapigliatura e il 6 febbrajo (un dramma in famiglia).
Giovane, anzi giovanissima, l’Italia unita già ha deluso i suoi tifosi, poeti in testa. È sotto queste lune, quando gli ideali risorgimentali affondano nella palude della burocrazia, nelle ingiustizie sociali, nell’immobilismo, che nasce la Scapigliatura. Com’è avvenuto o sta avvenendo in altre parti d’Europa, anche tra gl’intellettuali del Nord prende forma un movimento d’opposizione e di rivolta antitradizionalista, una controcultura in anticipo sui tempi storici. Gli scapigliati si ispirano soprattutto ai bohémiens francesi. Artisti giovani e irrequieti, nati attorno agli Anni Trenta dell’Ottocento, si schierano entusiasticamente e con ironia su posizioni antiborghesi e anticlericali, beffandosi della retorica patriottarda, del patetismo letterario, delle accademie. Gli scritti e la pittura degli artisti scapigliati si aprono alla realtà quotidiana; ispirati dal movimento decadentista, si ribellano al cupo provincialismo dell’Italietta nascente, con i suoi poeti nazionali e i suoi monumenti a cavallo, attraverso esplosioni di stravaganza e dandismo, nel tentativo di proporre nuovi stili di vita, vicini alla sensibilità europea.
Oltre a Rovani e Arrighi, aderiscono alla Scapigliatura Enrico Prada, Carlo Dossi, Arrigo e Camillo Boito, Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Gerolamo Induno, Camillo Cima, Emilio Praga. Artisti spesso poliedrici nella loro attività, sono romanzieri e pittori, commediografi e giornalisti; a volte sono tutte queste cose insieme. Centocinquant’anni dopo la nascita del movimento, scopriamo che della Milano scapigliata, se si ha l’accortezza d’usare le opere e le biografie dei protagonisti come Baedeker, rimane ancora qualcosa: i teatri e le osterie.
È l’impatto della Scapigliatura col teatro milanese, più ancora che quello con le osterie, ad avere un effetto travolgente sui contemporanei. Già il Risorgimento, con le sue musiche marziali e la sua cultura letteraria nazionalista, da pamplhet e da volantino, ha contribuito a cambiare i gusti del pubblico. Ma le opere che solo pochi anni prima erano commoventi e originali ora suonano vecchie e indigeste. Messi in disparte i vari Meneghini, il teatro affronta scene e tematiche più vicine alla realtà quotidiana. Nuovi punti di riferimento sono il teatro di Santa Radegonda, il Fossati, il Nuovo Teatro Re, che mettono in scena El zio scior di Camillo Cima, I misteri di Milano di Talamona e Dossena, El barcheett de Boffalora dell’Arrighi (una libera versione del vaudeville francese La cagnotte di Labiche).
Gli scapigliati, oltre a svecchiare il repertorio teatrale, si propongono un rinnovamento radicale del teatro milanese anche sotto il profilo organizzativo e manageriale: basta con le filodrammatiche, è tempo di passare alle compagnie professionali, come nel resto dell’Europa. Protagonisti di questa rivoluzione nella rivoluzione sono soprattutto Camillo Cima e Cletto Arrighi. Quest’ultimo, grazie a una cospicua eredità dello zio Bernardino Righetti, s’impegna nella costituzione d’una compagnia d’attori professionisti e nel rilancio d’un nuovo spazio teatrale: il Padiglione Cattaneo di corso Vittorio Emanuele. Nel 1870, presenta al pubblico la sua compagnia di professionisti, formata dai più bei nomi del teatro dell’epoca quali Sbodio, Gandini, le sorelle Giovannelli e, dulcis in fundo, il giovane Edoardo Ferravilla, le cui interpretazioni in vernacolo sono subito leggenda. Camillo Cima, da parte sua, si propone di conferire maggiore dignità al teatro dialettale. Nato a Milano nel 1827 da una famiglia originaria della valle di Blenio, culla della lingua milanese, Cima è poeta, scrittore, pittore, giornalista satirico. È con lui che nasce la nuova stagione del teatro dialettale. Scrive una trentina di commedie. Oltre al successo del già citato El zio scior, incassa anche il trionfo di On panattonin, una storia d’amore dolce-amara che sarà ripresa cent’anni più tardi – perfettamente conservata dopo la lunga ibernazione – da un altro grande interprete del teatro dialettale meneghino come Giovanni Barrella. Ed è proprio ambientata cent’anni nel futuro un’altra commedia dell’Arrighi, El divorzi de chi a cent’anni: scritta nel 1884, al crepuscolo del movimento scapigliato, è il racconto di come in un futuro lontano le donne saranno finalmente libere dalla servitù familiare.
Dopo il teatro, l’osteria. Torniamo quindi alla Nôs, giusto un po’ fuori il dazio di Porta Ticinese. Luogo celebrato anche da De Marchi nel suo Milanin milanon, la Nôs è l’osteria leggendaria che, nelle intenzioni di Carlo Dossi, avrebbe dovuto diventare la scenografia d’una tela che purtroppo non sarà mai dipinta: una gran tavolata d’artisti, praticamente il Simposio di Platone, con Giuseppe Rovani a fare da celebrante, e ovunque bottiglie. Lasciando la Nôs, e dirigendoci verso la zona est della vecchia Milano, troviamo Polpetta, altro luogo di gran delizia e stravizio. Siamo dalle parti di corso Monforte, più o meno all’angolo di via Conservatorio. Gli scapigliati, tuttavia, non sono contenti: Polpetta non è perfetto, e nemmeno la Nôs. Brigano finché non viene aperta una nuova osteria, detta L’Ortaglia, vicino allo studio del pittore Luigi Cremona, nel parco d’un palazzo nobiliare dove oggi si trova l’istituto dei ciechi di via Vivaio. A nord della città troviamo la Cassina de’ Pomm: un’osteria, che prima d’essere bazzicata e magnificata dagli scapigliati, fu celebrata da Carlo Porta e da Stendhal.
Rovani, qualunque sia l’osteria, beve come una spugna (vino, assenzio) e paga, come sempre, quando può, come testimonia un’aneddotica sterminata. A mettere in circolazione il gossip su Rovani e gli altri scapigliati è Carlo Pisani Dossi. Nato 1847 a Zenevredo, nell’Oltrepò Pavese, alcuni lo definiranno «uomo delle tre vite» perché oltre a scrivere Le note azzurre, La Rovaniana e numerose altre opere è anche diplomatico e archeologo. Capo gabinetto al ministero degli Esteri dal 1872, scrive i discorsi della Corona per Umberto I (è lui a inventare il nome Eritrea, e ne seguono i noti conquassi). Viene silurato dopo la battaglia di Adua. Quanto ai risultati del suo lavoro d’archeologo, sono raccolti nel museo Pisani Dossi di Corbetta e riguardano epoche diverse del territorio lombardo: dai Celti alla romanizzazione e ai Longobardi e gli scavi di Albairate, Cisliano e la Scamozzina (bibliocorbetta.it).
È Dossi a raccontare che Rovani anticipò il futurismo, se non altro a tavola: un giorno invita l’amico Luigi Perelli a «un pranzo al contrario», che comincia dalla mancia al cameriere, passa al caffè e alla frutta, e finisce con la minestra. Alle osservazioni dell’ospite, Rovani sentenzia: «Se te ghe dee prima la mancia el te serv con passion!».
Ma tutto finisce, anche la gioventù, figurarsi la scapigliatura, che come molti movimenti venuti alla ribalta in poco tempo, si dissolve altrettanto velocemente. Scompaiono molti suoi protagonisti. Alcuni muoiono in giovane età, per esempio i pittori Faruffini, Praga, Cremona (c’è chi dice per effetto dell’arsenico e del piombo maneggiati insieme ai colori). Anche Rovani se ne va presto, a 56 anni, nel 1874, ma l’avventura intellettuale e artistica degli scapigliati rimane viva e la sua eredità sarà subito raccolta per certi aspetti dal Verismo, per altri dal Futurismo che presto busserà alla porta.
Sono gli anni Ottanta del XIX secolo. Quando gli ultimi scapigliati si ritrovano la sera al caffè del teatro Manzoni, Milano sta vivendo una rivoluzione urbanistica epocale: i Corpi Santi si riempiono di officine e di ciminiere e il centro subisce un colossale sventramento che cancella i simboli del vecchio Milanin: il Rebecchino, il coperto del Figini, le stradine curve, la città dotta e bene educata in cui le Arti contano quanto e più di traffici e commerci. Ecco irrompere sulla scena milanese nuovi soggetti sociali, le masse, il proletariato urbano. Poi risuonano, d’un tratto, le cannonate di Bava Beccaris, e comincia un’altra storia.