Mario Sconcerti, Sette 30/11/2012, 30 novembre 2012
MESSI? MEAZZA FU IL VERO BAMBINO DIVENTATO DIVINO
Segnando al Palermo il 4 novembre scorso, Francesco Totti ha superato nella classifica dei gol Peppino Meazza, il più grande e ormai anche il più nascosto fuoriclasse italiano di tutti i tempi. È straordinario come il calcio viva solo di presente. Forse un giorno arriveranno piazze, strade e monumenti a ricordare i grandi calciatori, ma per ora vince solo quello che si vede. Già Rivera è appena un suono per milioni di giovani, Mazzola qualcosa di indefinito tra padre e figlio. Meazza viveva solo sul campo e nei cinegiornali quando la propaganda raccontava un Paese che non c’era. Eppure Meazza ha fatto cose che nessun altro attaccante ha fatto, nemmeno Maradona. Ha vinto due titoli mondiali e nel mezzo una Coppa Internazionale, l’equivalente di un Campionato Europeo. Ha segnato sempre nelle tre finali giocate con la maglia azzurra. Ha segnato 11 reti con l’Inter al primo campionato nel 1927, quando aveva 17 anni. Ne ha segnate 33 l’anno dopo in 29 partite. È stato tre volte capocannoniere. Ha fondato un modo di giocare e un modo di segnare. Nel ’38, in semifinale mondiale contro il Brasile, nel momento in cui gli fu fischiato a favore un calcio di rigore, sentì che gli si era rotto l’elastico dei pantaloncini. Non pensò nemmeno di farseli cambiare. Era una semifinale ed era il Brasile, ma Meazza si tenne le braghe con una mano e andò a battere il rigore. Segnò e chiuse la partita.
Era piccolo e magro, ma non fragile, aveva gambe forti. A stare dietro agli almanacchi era alto 1.69 e pesava 71 chili. Un centimetro più di Maradona, la fotocopia di Messi. E di Messi aveva il gioco, lo scatto, il dribbling stretto. Come Messi amava giocare da attaccante unico e partire un po’ defilato. Non ascoltava tattiche, puntava l’avversario e cercava la porta. La prima classifica cannonieri la vinse a 21 anni con 31 reti.
Calciatore moderno. Meazza diventa il simbolo del nuovo calcio industriale e professionistico portato nel 1923 da Edoardo Agnelli, il padre dell’Avvocato. I soldi della Fiat e la cultura da multinazionale stavano appena cancellando i tempi eroici della Pro Vercelli e delle Polisportive. Era nato il campionato a girone unico, quello vero, stavano arrivando gli oriundi, quelli che Mussolini chiamò “gli italiani della grande Italia al di là dell’Oceano” per giustificare il ricorso agli argentini voluto da Agnelli. Il calcio cominciava a costruire modelli di modernità. Accanto ai regnanti e ai divi del cinema, il calciatore si era conquistato una popolarità più facile e più intensa. Nessuno poteva essere re, pochissimi diventavano divi, ma giocare a calcio potevano tutti. Era il primo sogno di ricchezza realizzabile, un simbolo trasversale. Il campione al tempo della Grande Depressione era ricco, giovane, sano, quasi sempre bello. E soprattutto celebre.
Meazza vestiva ricercato, il cappotto era sempre di cammello, era sempre pettinato, pieno di ordine e di brillantina. Mangiava solo nei grandi ristoranti, giocava a carte e a biliardo, faceva tardi la notte, amava le donne, anche quelle delle case chiuse. Un giorno scomparve in una camera il sabato e si svegliò alle due e mezzo della domenica, mezzora prima della partita. Fuggì dall’albergo in pigiama, arrivò allo stadio che la partita era cominciata da dieci minuti. Naturalmente entrò e segnò.
Era nato nel 1910 da una madre verduraia in zona Porta Vittoria a Milano. Il padre era morto in guerra, la madre era venuta in città a cercare fortuna dalla Bassa Lodigiana. Come Messi, da bambino anche Meazza sembrava non avere nessun futuro. Era magro allampanato, i muscoli leggeri e nascosti dalle ossa. Lui pensava di essere un terzino. A quei tempi si giocava con il Metodo, a fare i terzini erano due, uno marcava il centravanti e uno faceva il libero come adesso il Barcellona. Nel mezzo, avanzato di qualche metro stava il battitore libero, il regista della squadra. Pura scuola catalana attuale. Peppino si era chiaramente sbagliato sul suo ruolo ma questo significava poco, tanto con il pallone faceva quello che voleva. Un anno dopo un suo compagno di squadra lo porta da Ciminaghi, un importante osservatore dell’Inter. Ciminaghi dice che da terzino non serve, in compenso manca un centravanti. Meazza dice, benissimo, io sono un centravanti. L’Inter vince per due anni il campionato lombardo, il ragazzino segna decine e decine di reti.
Il bambino non ha paura. A consigliarlo per la prima squadra è Fulvio Bernardini. Ne parla con Veisz, il leggendario ebreo ungherese che aveva portato la scuola danubiana in Italia. Veisz va a vedere il piccolo Meazza e resta impressionato, decide di portarlo in prima squadra. Lo fa debuttare in un torneo estivo difficile per l’Inter da molti anni, il Torneo di Como. Si gioca in agosto e l’Inter non vince mai. Negli spogliatoi Giuseppe Viani vede Meazza spogliarsi e si mette a gridare: «Ma ora facciamo giocare anche i bambini?». Veisz arriva con il suo sorriso gelido e dice sì, il bambino gioca, lei no. Viani aveva un solo anno più di Meazza, ma era già un uomo. Meazza sembrava uscito da una scuola media. Però l’Inter vinse per la prima volta il Torneo di Como e il bambino fece due reti.
Lo chiamavano il Balilla perché era il cocco del regime. Meazza non era fascista per ideologia. Era che non sapeva si potessero avere altre idee. Era giovane, ricchissimo, felice e riverito. Perché avrebbe dovuto scegliere qualcosa di diverso? Era stato Dio ad aver scelto per lui. Il fascismo dette molto al calcio degli Anni Trenta. Mussolini capì che non era uno sport, era un perfetto linguaggio universale. Gli diede organizzazione e dirigenti, lo rese ricco e ne fece un grande strumento di propaganda. E il calcio gli restò fedele.
Nel 1938, quando l’Italia andò in Francia a difendere il titolo mondiale, i francesi dissero a Vittorio Pozzo che avrebbe dovuto rinunciare alla maglia azzurra. Era troppo simile al blu della maglia francese. Pozzo rispose che non c’erano altre maglie, ma i francesi insistettero: le nuove maglie ve le diamo noi. Gli italiani si videro recapitare in albergo poche ore dopo una muta di maglie rosso fuoco. I dirigenti federali, tutti gerarchi, si rifiutarono, ma i giocatori andarono molto oltre. Pretesero di giocare con le maglie nere, colore del fascismo. Non era eroismo, era coerenza, senso del gruppo. D’altronde quando i partigiani bresciani trovarono Eraldo Monzeglio a Salò dopo la fuga del Duce, non pensarono per un minuto a fucilarlo. Monzeglio era stato a lungo accanto a Mussolini, era maestro di tennis dei figli, giocava spesso con il Duce, ma i partigiani dissero che un campione del mondo non poteva essere toccato. E lo lasciarono libero.
Una cosa che nessuno sa, adesso che si confrontano i gol di Meazza con quelli di Totti, è che Meazza in pratica smise di giocare ai suoi livelli quando aveva appena 28 anni. Dopo i mondiali di Francia, cominciò ad avere problemi di circolazione al piede sinistro. La medicina del tempo disse che si era staccato un embolo e gli bloccava l’arteria. Il risultato per un giocatore di calcio era tremendo: quel piede aveva ormai pochissima sensibilità, non sentiva quasi il pallone. Meazza giocò ancora molti anni, andò nel Milan, nella Juve e nell’Atalanta, ma non fu più lui. E rimase sempre profondamente interista. Non amava il Milan. Quando ci giocava contro allenando i ragazzini dell’Inter, negli spogliatoi arringava la squadra: dategli sotto, fatemi dimenticare di aver indossato per otto mesi quella maglia.
Nessuno decisivo come lui. Vivesse oggi sarebbe decisivo come Messi. Non esiste confronto fra i gol di epoche diverse, ma la difficoltà di segnare è la stessa in qualunque epoca. Oggi si è tutti più veloci, attaccanti e difensori. Negli Anni Trenta si era meno atletici, ma tutti, attaccanti e difensori. La differenza di Meazza sta nel talento, e quello non ha età. Per almeno dieci anni è stato il giocatore più decisivo del mondo. Il primo campione moderno. Quando giocò i Mondiali in Francia, l’altra grande stella mondiale era il centravanti brasiliano Leonidas, fisico e tecnica, tiro formidabile, ma con un piccolo particolare: giocava scalzo. Il calcio del tempo di Meazza era cioè ancora un calcio in transito tra il divertimento e il professionismo totale. Fu Meazza a dare l’ultima spinta, ad aprire l’epoca dei campioni reali, regolari, pieni di arte e di normalità organizzativa.
Non so cosa penserebbe Meazza oggi se sapesse che un altro del suo ruolo ha segnato più di lui. Boniperti ricorda sempre a Del Piero che all’epoca sua si durava meno e non valevano gli autogol. Lo ricorda con cortesia piemontese, ma non smette mai di ricordarlo. A me capitò molti anni fa di andare ad Alessandria a casa di Girardengo a dargli la notizia che Eddy Merckx aveva battuto il suo record di vittorie alla Milano-Sanremo, sette. Mi apparve un vecchio piegato su se stesso, con gli occhi lacrimosi. Piangeva in silenzio e con dignità. Mi portò in salotto davanti a una vetrina, c’erano i ricordi suoi e di sua moglie, morta pochi anni prima. Disse: «Lei mi chiede cosa provo adesso che non ho più nemmeno quel record? Provo che sono davvero solo. È tempo che vada da mia moglie».
Giuseppe Meazza è morto a Rapallo il 27 ottobre del 1979. Non aveva ancora settant’anni. È l’unico giocatore a cui sia stato intitolato un grande stadio.