Francesco Manacorda, La Stampa 1/12/2012, 1 dicembre 2012
IL PASTICCIACCIO DELLA SEA IN BORSA
Vendere l’argenteria di casa non è sempre la soluzione più facile per risolvere i problemi economici. Specie se qualcuno in famiglia fa sapere in giro che le preziose posate della nonna non sono così preziose e ancor di più se sul mercato non c’è nessuno disposto a pagartele quanto speravi. Il pasticciaccio della Sea - la società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa controllata da Comune e Provincia di Milano - si può leggere proprio così.
Ieri sera, infatti, la società ha annunciato il ritiro della sua prevista quotazione in Borsa perché non ha avuto abbastanza offerte per le azioni messe in vendita. A soffrirne è soprattutto la Provincia, che contava sull’incasso di circa 100 milioni per non sforare il patto di stabilità.
Dietro lo stop, però, una storia che ricorda i peggiori esempi del «capitalismo senza capitali» all’italiana e si intreccia con le contraddizioni del «capitalismo municipale». Lo scorso anno, il Comune di Milano spinto dalle necessità di bilancio vende il 29,7% della Sea al fondo per le infrastrutture F2i, spuntando un ottimo prezzo (l’intera società viene valorizzata 1,3 miliardi) e mantenendo comunque un saldo controllo del capitale con il 54%. Gamberale rimedia incidentalmente anche un avviso di garanzia per turbativa d’asta: la sua offerta è superiore di un euro alla base d’asta stabilita.PoiilComunecercadifareunbarattoconlaProvincia, anch’essa bisognosa di soldi: al sindaco Giuliano Pisapia il 14,5% della Sea in mano alla Provincia; al presidente dell’ente Guido Podestà il 18% dell’Autostrada Milano-Serravalle che ha il Comune più un conguaglio in denaro. Ma F2i, guidato da Vito Gamberale, si oppone e ricorda alla Provincia che per cedere la sua quota di Sea deve fare non una trattativa privata ma una gara. Gara nella quale Gamberale conta evidentemente di concorrere per rafforzare la sua posizione nella società.
Niente vendita diretta? E allora, decidono Comune e Provincia, si passi alla quotazione in Borsa, rassegnandosi a una valorizzazione complessiva sotto il miliardo, e mettendo peraltro sul mercato solo la quota di Podestà; senza cioè che Pisapia intacchi più di tanto la sua maggioranza. Da quel momento, però, Gamberale si mette a contestare - per via legale e mediatica - la quotazione, spiegando anche che al mercato non sono state date tutte le informazioni, specie quelle negative, sull’andamento della società. Una mossa che contribuisce non poco a raffreddare i potenziali investitori, del resto già abbastanza freddi di fronte a un’offerta che colloca solo il 23% del capitale e lascia il bastone del comando nelle mani del socio di maggioranza Pisapia. Adesso la Provincia non ha altra scelta che vendere la sua quota all’asta. A comprarla, quasi di sicuro, proprio Gamberale.
Ecco così che il fallimento di ieri è così la conclusione quasi scontata di una serie di scelte poco chiare e di errori, ma indica anche che l’illusione degli enti locali di far fronte ai tagli alla spesa del governo centrale e ai vincoli dal patto di stabilità mettendo sul mercato i loro cespiti rischia spesso di rimanere per l’appunto un’illusione. Non è un caso che nelle stesse ore in cui a Milano si blocca la quotazione Sea, a Torino si fanno i conti assai deludenti per il Comune - anche se in assenza di balletti come quelli milanesi delle offerte ricevute per importanti partecipazioni, tra queste proprio una quota del 28% della società aeroportuale Sagat, dopo che il tentativo di venderle all’asta è fallito per assenza totale di offerenti.
Ma il caso Sea, apre anche altre questioni. La prima riguarda la tentazione di una «rendita municipale» da parte di enti locali che da una parte decidono di aprire il capitale delle società da loro controllate ad altri azionisti e dall’altra non accettano di perderne il controllo. Questo è precisamente il caso in esame, figlio anche delle spaccature ideologiche della composita giunta Pisapia: a un assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, che avrebbe ceduto volentieri la maggioranza di Sea, si è contrapposta una sinistra che gridava alla «svendita» degli aeroporti. Tanto svendita non deve essere stata, visto che sul mercato gli acquirenti sono mancati.
La seconda questione è che il mancato decollo della quotazione Sea è l’ennesimo colpo per la credibilità dell’utilizzo della Borsa da parte delle nostre imprese. Nel corso del 2012 - e in dicembre il calcolo è da considerarsi ormai definitivo - due sole società hanno deciso di andare sul mercato azionario a chiedere soldi. Una è il marchio del lusso Brunello Cucinelli, tipico campione di categoria del made in Italy, in forte espansione sui mercati esteri. L’altra è per l’appunto la Sea che aveva destinato parte - 160 milioni - dei soldi che avrebbe raccolto in Borsa a pagare, proprio a Comune e Provincia, un dividendo straordinario. Presentarsi in Borsa con un azionariato già litigioso e dati e progetti men che chiarissimi non solo - come si vede - non paga, ma rischia anche di allontanare ancora di più gli investitori da Piazza Affari.
Una riflessione merita anche il ruolo di F2i, il fondo per le infrastrutture partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti - a sua volta controllata dal Tesoro da grandi banche come Intesa-Sanpaolo e Unicredit e dalle fondazioni bancarie. Il fondo guidato da Gamberale ha una natura privatistica, ma una missione di investimento nelle infrastrutture che, unito alla composizione del suo azionariato, gli dà un’aura istituzionale. Il suo atteggiamento nella vicenda Sea è una legittima difesa del proprio interesse a conquistare la maggioranza della società o tracima forse in un’esibizione muscolare più da «hedge fund» che da fondo per le infrastrutture?