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 2012  dicembre 03 Lunedì calendario

SVOLTE. LA NUOVA GOVERNANCE NELL’ERA DEL CAPITALISMO DI STATO - È

giunta l’ora di archiviare la corporate governance con la stessa esclamazione liberatoria con cui Fantozzi liquidò «La corazzata Potemkin»? Chi voglia stupire il borghese risponderà di sì. «La corporate governance è una boiata pazzesca!», ripeterà citando, tra i tanti citabili, il caso della manipolazione del Libor a opera delle ottime banche della City.
Le regole del buon governo societario, tutto comitati, audit, certificazioni, pareri indipendenti, regolazioni per i rapporti con le parti correlate, cedono il passo alle azioni scandalose e perfino alle violazioni della legge quando queste servano l’interesse dei soci, e dei top manager. I Ligresti hanno fatto strame della corporate governance con antica impudenza, e mal gliene incolse. I consiglieri di Telecom Italia, indipendenti e non, hanno volentieri delegato alle procure le proprie responsabilità: tutti o quasi hanno consulenze passate, presenti e future da difendere. L’ascesa e la caduta di Cesare Geronzi alle Generali dimostra quanto siano precarie le abitudini e le attitudini del grande capitalismo italiano. I sommovimenti in capo alle fondazioni bancarie, alla vigilia del rinnovamento di molti incarichi, aggiungono le incertezze degli uomini e delle loro ambizioni alle ancora più grandi incertezze della Grande Crisi. Ma quei banchieri della City hanno inferto una lesione ben maggiore alle fede pubblica nel mercato pur riempiendosi la bocca di corporate governance da mane a sera. Non di meno, la questione della corporate governance può essere liquidata opponendo un nuovo scetticismo assoluto alla precedente, cieca fiducia.
Effetto «deregulation»
Un po’ di storia, anzitutto. Il culto della corporate governance è iniziato negli anni ’90 con l’economia in crescita ovunque, al traino monetario e culturale dei Paesi anglosassoni, primi vincitori della Guerra fredda. Si pensava che la liberalizzazione transnazionale del mercato dei capitali e dei correlati diritti di proprietà facesse bene al sistema delle imprese nel suo complesso, consentendo l’incessante riallocazione del capitale nelle mani più adatte. Non si distingueva più tra Paesi dalle radici diverse. Tutti gli uomini al potere erano convinti che la globalizzazione finanziaria, alfiere del domani, avrebbe fatalmente avuto la meglio sul diritto, figlio del passato. Deregulation, deregulation. In tale contesto, il buon governo societario diventava il baluardo a difesa dei diritti delle minoranze azionarie contro il rischio di un’appropriazione privata dei benefici del controllo da parte dei manager nelle società a capitale diffuso e dei soci più importanti nelle società a capitale concentrato. La contendibilità di questo controllo ne veniva protetta ed esaltata, rendendo vieppiù fluido e ricco il mercato dei diritti di proprietà. Credendo di aver trovato lo schema di gioco perfetto, la corporate governance avrebbe assicurato l’efficienza e la correttezza delle squadre in campo. E invece…
Che senso ha oggi la corporate governance quando l’economia occidentale è in recessione, più o meno mascherata, da un lustro e, secondo il cancelliere Angela Merkel, in tale triste situazione resterà per altri cinque anni? Che senso ha favorire il frequente cambiamento degli assetti proprietari quando i capitali scarseggiano e il loro costo è pesantemente manipolato dalle banche centrali sia, direttamente, nella componente debitoria sia, indirettamente, in quella azionaria? Che senso ha quando l’intervento degli Stati nelle imprese — dagli investimenti dei fondi sovrani ai salvataggi bancari — appare più forte che mai senza per questo essere collegato ad alcuna rivoluzione? È evidente che la corporate governance ha perso centralità. Se ieri veniva prima perché si pensava che tutto o quasi tutto il resto fosse risolto, oggi viene dopo, perché quel resto — l’immane mole di problemi posti dalla Grande Crisi — ha conquistato il primo piano.
Veniamo all’oggi. Il libero mercato dei diritti di proprietà non può dirsi tale se chi sbaglia non paga, se cioè viene impedito di fallire alle società in stato fallimentare. Ma questo è esattamente quanto avviene oggi, con l’intervento della Casa Bianca nelle imprese, banche, assicurazioni o case automobilistiche che siano. Oppure, in Italia, con l’intervento della Cassa depositi e prestiti in talune imprese che, pur meritevoli, non trovano altrimenti i capitali per lo sviluppo.
Disoccupazione e rating
L’intervento degli Stati avviene non in seguito all’avvento del comunismo, ma per ovviare ai limiti del capitalismo storicamente determinato allo scopo di salvarlo dalle proprie follie. Questa finalità, dettata dai governi e non dai mercati che, al dunque, erano evaporati, cambia il contesto entro il quale le imprese ricorrono alla corporate governance. Il terrore della disoccupazione di massa e il timore del declassamento del proprio Paese nella divisione internazionale del lavoro tolgono alla contendibilità delle imprese il valore dogmatico per ridimensionarla a opportunità da valutare caso per caso. La stabilità e la continuità aziendale acquistano un nuovo rilievo. Ma questo rilievo non può certo nascondere l’ipocrisia di quanti adottano i più articolati sistemi di corporate governance all’interno delle piramidi societarie, dei patti di sindacato, delle scatole cinesi, che assicurano a chi sta al vertice benefici ingiustificati dall’investimento reale e dal contributo operativo.
Oggi la corporate governance può ritrovare una nuova dignità se allarga i propri riferimenti fuori dall’impresa. La moderna corporation, specialmente nel fuoco della Grande Crisi, è sempre più il punto d’incontro di fornitori di lavoro, capitali e servizi e sempre meno, nella grande dimensione naturalmente, un affare padronale, limitato alla compagine azionaria. Il nuovo dante causa della corporate governance è la comunità che salva l’economia con i denari dei contribuenti.
Le tecniche della corporate governance ne possono presidiare gli interessi del dante causa contro le due insidiosissime forme di avidità personale: quella dei rappresentanti della politica, che pure organizza i flussi di denaro pubblico, e quella dei detentori dell’ormai insufficiente ma sempre influente capitale privato, che vuole essere aiutato da Pantalone senza pagare dazio, facendosi talvolta scudo dei lavoratori.
Massimo Mucchetti