Paolo Isotta, Corriere della Sera 01/12/2012, 1 dicembre 2012
LA FIABA TRISTE DI ELSA E LOHENGRIN
Siamo nell’Alto Medioevo. Il Duca del Brabante è morto. Lascia due figli giovanissimi. Il maschio scompare; Elsa, la femmina, viene accusata dal tutore, il fiore della Cavalleria, il conte Federico di Telramondo, di averlo ucciso. L’Imperatore, convocata la Dieta nel Brabante allo scopo di raccogliere anche lì guerrieri per muovere contro gl’Infedeli, deve giudicare. Nessun cavaliere si offre di affrontare in Giudizio di Dio Federico; Elsa implora che l’Araldo, il più magnifico ruolo del Lohengrin di Wagner, appelli ancora. Un eroe dall’armatura argentea giunge sulla Schelda guidando una navicella trainata da un cigno. Egli sarà il campione; e sposerà Elsa a patto ch’ella giuri di non mai domandare il suo nome né donde egli venga. Elsa giura; nel duello Federico viene atterrato: il campione gli lascia salva la vita affinché la impieghi all’espiazione.
La sposa di Federico è la principessa Ortruda, figlia di Radbod, l’antico Re dei Frisoni, l’ultimo appartenente alla schiatta che adorava gli Dei prima che la contrada si evangelizzasse. Ella è maga; nel Secondo Atto giace nella notte con Federico ai piedi del Castello in attesa di intraprendere la via dell’esilio. Ma non si arrende; vuole vendetta; implora Elsa in affettatamente perfetta veste di supplice; Elsa l’accoglie e l’abbiglia in modo magnifico affinché le faccia da dama al corteo nuziale.
Ortruda le insinua in cuore il dubbio che il Cavaliere sia sempre per poter abbandonarla; solo possedendone il nome o anche un’infinitesima porzione del corpo le sarà possibile farlo per intero suo. Al corteo improvvisamente e terribilmente insorge contro il campione: ne viene con ignominia scacciata.
Ma in Elsa il veleno lavora. Nella stanza nuziale ella pone al Cavaliere inopinate interrogazioni, finché non gli avanza la capitale, quella che aveva giurato di non mai profferire. Il Cavaliere, alfine, le dice che risponderà al cospetto del Re; ma che l’unione è spezzata, egli dovrà ritornare donde proveniva. È Lohengrin, figlio di Parsifal, Re del Graal nella rocca del Monsalvato inaccessibile ai mortali che non siano eletti del Salvatore; giunta la navicella il cigno si scioglie dalla catena e ridiventa il giovane Duca, che per incanto di Ortruda s’era trasformato nell’uccello; Ortruda viene trafitta da cento lance.
Wagner non ascoltò il Lohengrin se non molti anni dopo averlo composto: fuggiva, inseguito da una condanna a morte e un mandato di cattura del Regno di Sassonia per aver partecipato ai moti del 1849; e il Regno di Sassonia era la sua patria sebbene egli ritenesse sua patria solo la Germania, non solo per l’esser egli nato a Lipsia, ma anche perché il successo del Rienzi gli portò il posto di maestro della regale cappella a Dresda, dopo Schütz e Bach; e lo studio dei suoi anni di direttore d’orchestra, organizzatore e compositore di musica di circostanza è importantissimo al fine di conoscerne la personalità. Lo diresse, il Lohengrin, Liszt a Weimar il 28 agosto del 1850, Wagner lontano che ne seguiva mentalmente l’esecuzione, l’orologio alla mano per calcolarne i momenti. L’aveva scritto dopo aver a lungo studiato i poemi medioevali tedeschi e francesi; perché il mondo del Medio Evo cattolico non lo possedesse, durante la composizione leggeva Eschilo.
Il Secondo Atto fu scritto per ultimo; lì viene forgiato il personaggio di Ortruda, uno dei più potenti del teatro musicale, ma meglio diciamo della Poesia, di tutti i tempi. La sola introduzione orchestrale, una terribile descrizione della notte atroce per i reietti, coi temi della magia e dell’opera distruggitrice e della vendetta; e il giuramento di vendetta pronunciato dai due all’unisono: basterebbero per consacrare la gloria eterna dell’Autore.
Nei tre Atti il coro è sottoposto a richieste inaudite, spesso sdoppiato in due organismi e poi ancora fra voci virili e femminili; una delle infinite e definitive invenzioni timbriche di questo Dramma musicale è che all’arrivo della navicella, per dipingere lo stupore che in tutti la vista provoca, Wagner esclude i soprani, e i mezzosoprani portano la melodia, al di sotto le voci di due sezioni tenorili e due di bassi.
L’orchestra è realizzata con invenzione nuovissima, i legni, per la prima volta nella Storia, a tre parti. Scrisse Richard Strauss essere il Lohengrin il modello della orchestrazione per chiunque volesse apprenderla, quella dell’Anello essendo troppo personale per fungere allo scopo.
Wagner amava il suo Araldo: diceva che cantava i suoi appelli come se il loro contenuto fosse stato per lui cosa sua propria. Sono annunciati, essi, da fanfare di trombe esterne, sulla torre, interne. Nell’esecuzione coordinarle con il resto è arduo, ma i più grandi Maestri ci hanno lasciato lezioni al riguardo: Cluytens, Jochum, Knappertsbusch, Keilberth, Karajan. Il Preludio è tale che nessuna fantasia potrebbe immaginarlo se non fosse lì: si apre con accordi fatti da quattro sezioni di violini soli in suoni armonici e altre quattro nella medesima acutissima tessitura: è un biancore accecante; il tema viene via via esposto dalle differenti sezioni orchestrali, archi, legni, ottoni, fino a raggiungere un culmine segnato da quattro colpi di piatti, due fortissimi su di un accordo dissonante, due con lo strumento strusciato a indicar l’inizio e la fine della discesa dopo detto culmine: i colpi di piatti meglio immaginati di tutta la Storia della Musica.
Nel Lohengrin un sistema tematico coi temi combinati, giustapposti e contrappuntisticamente sovrapposti già esiste ma Wagner non l’aveva preordinato; se ne accorse con grandissima emozione ex post tornando al dialogo fra Elsa, affacciata al balcone, e Ortruda, nel fango, del Secondo Atto. Il più famoso di tali temi è quello che in italiano definiamo all’antica del Mai devi domandarmi, che nel Secondo Atto viene udito in spettrali trasposizioni e mutamenti modali.
Verdi ascoltò il Lohengrin eseguito in italiano; nonostante il suo genio non lo comprese, come mostrano gli appunti che all’occasione redasse; e tuttavia il modello da lui profondamente rispettato, come prova la meravigliosa lettera che scrisse alla morte del Sommo di Bayreuth e che principia con «Triste, triste, triste!», il modello, dico, lavorò in lui: lo prova l’Otello. A tal riguardo occorre fare un’osservazione: nel Lohengrin v’è, nel Secondo Atto, un monumentale Concertato secondo per imponenza solo a quello del Tannhäuser; nel Terzo dell’Otello ve n’è uno del pari monumentale. Sono due pagine d’altissimo valore: quella di Wagner rappresenta l’ultimo esempio di questo modello nella musica tedesca, a non dire europea, quella di Verdi l’ultimo esempio di questo modello nella musica italiana, a non dire europea.
Paolo Isotta