Sergio Bocconi, Corriere della Sera 01/12/2012, 1 dicembre 2012
LA SOLITUDINE DEL MANAGER CHE INVENTO’ LA GIULIETTA
«L’idea nacque nel Duemila, quando 34 scatoloni contenenti migliaia di documenti relativi alla vita di lavoro di mio padre presero la via dell’Istituto di storia economica dell’Università Bocconi». È Marina Luraghi, figlia di Giuseppe Eugenio, il manager-poeta che ha «creato» all’Alfa Romeo la Giulietta, a «spiegare» come e perché è nato il libro di Daniele Pozzi, «Una sfida al capitalismo italiano: Giuseppe Luraghi», edito da Marsilio (318 pagine, 30 euro) presentato nei giorni scorsi all’Università Bocconi.
Un libro che racconta, con il percorso professionale (e artistico) del dirigente, nato a Milano nel 1905 e morto nel 1991, anche pagine della storia del capitalismo italiano. Perché, come l’autore sottolinea nell’introduzione («La solitudine del manager»), le esperienze di Luraghi, descritte da lui stesso in libri come «Capi si diventa» (1973) e «Incontri eccellenti» (1991), tracciano «le difficoltà incontrate nel perseguire la propria azione, sottoposta alle continue interferenze della politica o di una proprietà familiare troppo invadente». Uno «spazio troppo angusto», delimitato tra «famiglia e Stato, i due poli entro cui si muove il capitalismo italiano», dove «non c’è modo di sviluppare un’identità strategica della dirigenza». Poiché è questo il «rumore di fondo» del volume, Pozzi ha selezionato i momenti più significativi della carriera di Luraghi: il ventennio (dal 1929) di permanenza alla Pirelli, gli anni della direzione Finmeccanica (dal 1951) e la presidenza dell’Alfa Romeo (dal 1960 per 14 anni).
L’ingresso nella grande azienda ha luogo in Pirelli, dove inizia il legame di profonda amicizia con Cesare Merzagora. Nel Dopoguerra, tornati alla guida Piero e Alberto Pirelli dopo la temporanea epurazione, le spinte per il rinnovamento della struttura organizzativa di Luraghi e Merzagora si scontrano con la volontà di riportare il gruppo sotto un controllo più stretto da parte della famiglia. E nell’inverno del 1949 il contrasto fra Luraghi e Alberto Pirelli raggiunge il punto di non ritorno. Pozzi sottolinea che matura così nel manager la disillusione verso la «capacità dell’impresa familiare di abbracciare la modernità». La seconda stagione di Luraghi inizia con la direzione generale di Finmeccanica: l’impresa statale rappresenta per lui «l’unica modalità realizzabile di grande azienda manageriale in un Paese dove un capitalismo a suffragio diretto» rende «impossibile l’affermarsi della public company». Ma il «problema del rapporto con l’azionista» inizia presto anche qui a «manifestarsi come nodo cruciale», «sotto forma di tentativi d’ingerenza ai danni dell’autonomia del management». In Finmeccanica, dove si dedica molto all’Alfa Romeo, Luraghi si fa promotore di una ristrutturazione che ha un corollario: la cessione delle imprese risanate. Posizioni che diventano inconciliabili fino alle dimissioni nel 1956. La successiva presidenza Alfa si conclude con una drammatica rottura e l’Iri che denuncia in una nota la «disubbidienza» di Luraghi. «Colpevole» di aver detto no alla costruzione di uno stabilimento ad Avellino, «feudo» di Ciriaco De Mita, vicino a Nino Gullotti, ministro delle Partecipazioni statali. Ancora una volta non ce la fa: lo spazio delimitato tra famiglia e Stato è davvero troppo angusto. E la sua sfida al capitalismo italiano è una missione solitaria.
Una sfida che in realtà è doppia: l’altra è quella culturale. Luraghi, che nella professione si firmava Giuseppe e in arte Eugenio, viene accostato al banchiere della Comit Raffaele Mattioli: il manager che ha creato la Giulietta è anche il poeta che ha tradotto per primo in Italia Rafael Alberti; lo scrittore che ha inventato Pepp Girella, il piccolo borghese milanese qualunquista; l’editore con Meridiana; l’intellettuale che ha collaborato anche al Corriere della Sera e, con Leonardo Sinisgalli, ha dato vita alla rivista Civiltà delle macchine con l’obiettivo di unire ciò che nel Paese è da sempre separato: la cultura tecnica e scientifica a quella letteraria e artistica. Anche questa una sfida che ha coltivato, nel suo campo, quasi in solitudine.
Sergio Bocconi