Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 03 Lunedì calendario

GOOGLE SCENDE IN TRINCEA QUATTRO FRONTI DI ATTACCO PER IL GIGANTE DELLA RETE

[Le accuse di evasione fiscale non riguardano solo l’Italia ma molti paesi fra cui gli Usa, e poi ci sono la richiesta degli editori di pagare il copyright, l’inchiesta antitrust e il rincaro tariffario chiesto dalle compagnie di tlc] –
D ouble Irish e Dutch Sandwich non sono due nuovi panini di McDonald’s bensì, nel linguaggio degli avvocati internazionali, due dei metodi usati da Google per eludere (evadere?) il fisco. Roba legale fino a prova contraria, architettata da raffinati e diabolici avvocati, però sicuramente imbarazzante e altrettanto sicuramente da risolvere al più presto. E questo accade nei Paesi ad alta tassazione, Italia ovviamente in primis, ma perfino nei natii Stati Uniti: un’inchiesta di Business Week rivelò nell’ottobre 2010 che, utilizzando i sistemi di cui sopra, ovvero complicatissimi spostamenti di fatturato e profitti fra l’Irlanda, l’Olanda e soprattutto le colonie caraibiche di quest’ultima, Google pagava in America il 2,4% degli utili in tasse contro un corporate income tax bracket del 35% o tutt’al più del 28,3% pagato effettivamente in media dalle duemila prime società americane dopo deduzioni e detrazioni. Risultato: 3,1 miliardi di dollari di tasse non pagate. Andò a finire con una valanga di interrogazioni al Congresso e con un’inchiesta del dipartimento del Tesoro che accertò, abbastanza paradossalmente, che ciò era consentito alla multinazionale da un accordo riservato intercorso proprio con l’Internal Revenue Service. Accordo che venne successivamente rivisto e corretto fino a ripristinare un quadro fiscale più corretto. Anche in Italia lo scandalo (questo è il termine più adatto) è partito da un’interrogazione parlamentare. L’ha presentata al ministro dell’Economia un deputato del Pd, Stefano Graziano, che chiedeva lumi sulle pratiche fiscali dell’azienda prendendo spunto dal fatto che in Francia, Gran Bretagna, Germania e perfino nella tranquilla (dal punto di vista dei bilanci pubblici) Australia, erano scattati altrettanti audit fiscali per vederci chiaro. Il governo ha preso molto sul serio la questione: è andato il sottosegretario Vieri Ceriani a rispondere rivelando che è già in corso un’indagine della Guardia di Finanza. E questa in effetti ha accertato che nel solo periodo fra il 2002 e il 2006 il gruppo ha accumulato 96 milioni di Iva dovuta e non versata, nonché 240 milioni di redditi prodotti nel nostro territorio ma non dichiarati, evidentemente grazie al ricorso alle solite transazioni globali di cui si parlava. Dopodiché, giovedì scorso, è intervenuto lo stesso Vittorio Grilli per confermare che «effettivamente si è rilevata un’anomalia» e che il governo è impegnato per risolverla. Anche promuovendo un’ennesima iniziativa sul controllo dei paradisi fiscali e soprattutto dei mini-paradisi che si annidano nell’Unione europea quali Irlanda, Olanda e Lussemburgo, non a caso canali privilegiati per chiunque voglia sottrarre utili al fisco approfittando del suo stacevo: tus di multinazionale. Il problema è che questa maxigrana fiscale a livello planetario si aggiunge a una sfilza di controversie incentrate su Google, che sembrano essersi concentrate in questi giorni per qualche sventurata coincidenza astrale. Intanto siamo allo showdown con l’antitrust europeo e italiano (quello americano deciderà fra poco se aprire una propria inchiesta) sul presunto abuso di posizione dominante. Che la “posizione” ci sia è scontato ( cfr. grafico in pagina sul mercato dei motori di ricerca): bisogna vedere se c’è l’abuso, per esempio se Google faccia passare in testa alle schermate delle ricerche gli annunci che le interessano o direttamente quelli dei proprio servizi a pagamento. C’è poi aperta la questione delle royalty sugli articoli che finiscono nelle “ricerche” stesse, tratti da qualche giornale online che sul suo sito se li fa invece pagare. Qui la bagarre è furibonda: in Germania è addirittura in discussione al Bundestag una legge d’iniziativa del governo Merkel per introdurre questi diritti di copyright, ma il problema è sentito in tutti i Paesi dove si fa progressivamente strada il principio del pagamento dei servizi in rete. Nella questione è entrato anche il presidente francese Hollande, che ha chiesto e ottenuto un incontro con il chairman di Google, Eric Schmidt, e anche l’italiana Fieg si è associata alla battaglia. Ma non è finita ancora. Le compagnie di telecomunicazioni riunite nella potente Itu (International Telecommunication Union) hanno avanzato con forza una richiesta: far pagare di più il servizio di trasmissione in rete ai clienti over-the-top, cioè le grandi compagnie dell’hi-tech che assorbono enormi quantità di banda. Perché devono pagarla allo stesso modo di tutte le altre, è la domanda uscita dal quinto Internet Governance Forum che si è tenuto quest’anno in Italia (a Torino) pochi giorni fa, e che sarà al centro della conferenza mondiale della stessa Itu in calendario da domani 3 dicembre al 14 a Dubai. Anche qui, Google è finita in un vespaio mondiale. Un gruppo di studio dell’Itu, presieduto da Luigi Gambardella di Telecom Italia, ha elaborato una proposta articolata di revisione dei trattati internazionali che modifica le modalità di accesso al web introducendo il principio del quality based-services per far pagare agli utenti a seconda di quello e quanto fanno in Rete: se si manda una mail, ad esempio, o se il tuo sito è visitato da milioni di utenti. E Google guarda caso è esplicitamente portata ad esempio di questa seconda categoria. Insomma un concentrato di problemi. Di fronte a questo fuoco di fila, decisamente deludente la risposta dell’azienda: accerchiata dalla terra e dal cielo, Google Italia risponde solo sugli aspetti fiscali con due righe di comunicato per chiarire che «la società contribuisce in modo rilevante all’economia italiana e rispetta la normativa fiscale in tutti i Paesi in cui opera. È normale che un’azienda sia sottoposta a controlli fiscali ed è da tempo che lavoriamo con le autorità italiane. Ad oggi non abbiamo ricevuto alcuna richiesta di pagare ulteriori tasse in Italia». Tutto qui, e di fronte alle nostre reiterate richieste di un’intervista, se non altro per discutere del fatto che se non è arrivata ancora alcuna richiesta è perché è in corso l’indagine, oppure semplicemente se Google si renda conto della serietà della situazione, un cortese ma fermo rifiuto. Ma la pratica del quasi no-comment sembra essere il timbro planetario di Google. Con pochissime eccezioni. In Germania, qualche giorno fa di fronte alla questione del copyright editoriale l’azienda ha comprato una pagina pubblicitaria sui principali giornali con un titolone: Verteidige dein Netz, difendi la tua rete. Nel testo si invitano i cittadini tedeschi ad inondare il Bundestag di missive in cui implorano di non aggiungere tasse sul web. In America invece quando esplose il caso del fisco un economista del Baruch College, Abraham Briloff, ricordò che la National Science Foundation, finanziata con soldi dei contribuenti, aveva supportato la nascita di Google, e adesso l’azienda rispondeva evadendo le tasse. Allora si dice (ma non c’è conferma) che abbia risposto privatamente Sergeji Brin, il cofondatore, dicendo: «I miei genitori fuggirono dall’Urss perché non erano liberi, e ora mi ritrovo sotto questa cappa di sospetti e pregiudizi. Dov’è la libertà?» Già, dov’è? L’amministrazione Obama ha dato la sua risposta (vedere inizio dell’articolo).