Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 3/12/2012, 3 dicembre 2012
IL SEX APPEAL DEL DESIGN
[L’eros sotto forma di accendigas e divani] –
Stereotipo maschilista ma non solo maschile, la donna-oggetto è indubbiamente stata (così si dice oggi) un «tema»: individuato, discusso, attaccato e, quando ormai pareva superato in termini di civiltà generale, riemerso più forte di sempre, nelle più becere estetiche televisive con strascichi tribali e Bunga Bunga. Ma al contrario della donna-oggetto, l’oggetto-donna (l’oggetto cioè desiderato e posseduto, con il suo esanime erotismo), non ha quasi mai preoccupato nessuno. La «cosa» è anzi metafora sessuale normalissima: la cosina, il coso, il loro cosarsi.
Si sarebbe potuta allora chiamare “Quella cosa in Lombardia” (come la struggente canzone di nebbiosa e jannacciana carnalità, parole di Franco Fortini e musica di Fiorenzo Carpi) la mostra che si inaugura in questi giorni e con cui la Triennale di Milano celebra l’incontro, a sua volta perturbante e fecondo, fra sesso e design. Per il titolo la curatrice Silvana Annicchiarico ha, invece e comprensibilmente, preferito una soluzione tutt’altro che «local»: “KAMA sesso e design” (La Triennale di Milano, dal 5 dicembre al 10 marzo 2013, vietata ai minori di 18 anni). Kama è l’eros indiano: la parola sanscrita dell’amore fisico, di cui il Kamasutra è il codice. E’ dunque eros vero e proprio quello che ci lega al possesso degli oggetti? Corpi resi cose come cose rese corpi: gli ormai intasati traffici del desiderio scorrono in entrambe le direzioni (o lo vorrebbero).
Il presupposto da cui è partita Silvana Annicchiarico è che, anche per quanto riguarda i rispettivi rapporti con la sfera sessuale, il design va tenuto ben distinto dall’arte contemporanea. Quest’ultima (a cui si riferisce lo studio oramai classico di Mario Perniola sul Sex appeal dell’inorganico), si rifà o a una concezione primordiale della sessualità, con la femmina dea Madre che genera e distrugge, Origine du Monde ma anche apocalisse; oppure a una meno interessante e sempre più flebile volontà di provocazione. Il design, invece, cerca di riprodurre quel rapporto simbolico e anche quotidiano che l’antichità aveva con la sfera sessuale. L’oggettistica delle anfore e degli amuleti, dei ninnoli e dei tintinnabula arredava il mondo antico con un disinvolto affollamento di falli mai a riposo, allungati nello spazio come nasi di Pinocchio o Giacometti, o arcuati o immersi in azione nei dipinti vascolari. Niente colpa, né malizia, né trasgressione, né provocazione, né imbarazzo: sacrale accordo con la natura, casomai, in nome dell’energia e della fecondazione. Lo stesso ruolo giocato in Giappone da scrupolose rappresentazioni di atti sessuali (shunga), conservate nei bauli con le armi dei guerrieri o nel corredo delle spose, a fini apotropaici o didattici.
Dopo la tabuizzazione vittoriana e borghese, il rimosso freudiano e la frigida funzionalità dell’oggetto razionalista, è di nuovo questo il ruolo che hanno cercato ora di giocare i diversi organi convocati da Carlo Mollino, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Fabio Novembre, Andrea Branzi e Piero Fornasetti, in una sorta di Festival della Mentula (e organi affini). Non per suscitare il nostro desiderio, ma per interrogarne le concrezioni,
cioè le sue conseguenze nel mondo della materia.
Coerentemente l’allestimento non segue cronologie e periodizzazioni ma distribuisce otto installazioni commissionate ad altrettanti progettisti (Andrea Branzi, Nacho Carbonell, Nigel Coates, Matali Crasset, Lapo Lani, Nendo, Italo Rota, Betony Vernon) attorno a un salone centrale, che è il cuore dell’esposizione. Qui oggetti antichi e moderni, industriali o unici, funzionali o simbolici sono distribuiti su «tavoli anatomici », distinti per afferenza, a comporre un atlante del corpo erotico: falli, vagine, seni, glutei, orifizi e accoppiamenti.
Si vede così come il Novecento ha cercato di recuperare la franchezza arcaica, almeno a partire dalle sperimentazioni di Marcel Duchamp sul fronte dell’ambivalenza (il suo «Dart Object» è una forma fallica, realizzata a partire dal negativo dei genitali femmini-li), passando per divani labiali di Salvador Dalì e sedie varie fornite di gambe e chiappe, arrivando a una protesi per usare il touchscreen (di Dominic Wilcox: è intitolata «Finger-Nose», e giocata su un mascheramento dito-nasofallo) sino ad amuleti, oggetti scherzosi e giocattoli sessuali veri e propri: il piatto di Piero Fornasetti con una faccia di donna dotata di naso-fallo; il porta-anelli itifallico di Branzi; il famoso «Firebird » di Guido Venturini, accendigas cazzuto per Alessi.
Oggetti che evocano il corpo, lo richiamano, lo smuovono, essendone a volte il complemento. E’ il caso della scodella in cui Maria Antonietta beveva il latte, ricavata dal calco di una propria regale tetta (l’esemplare in mostra è una recente riproduzione della Manufacture National de Sèvres). Un altro caso di calco è quello che nel 1968 la groupie Cynthya Plaster Caster prese dal pene di Jimi Hendrix, per ricavarne una scultura in gesso. Manico per manico, il rispettabile risultato ci ammonisce sul vero significato della centralità del front-man nei concerti e del suo agitare il chitarrone avanti e indietro, sopra e sotto, di qua e di là, «live». Cosa mai potrà esibire, uno showman? Dal «vivo», poi?
Nel rock la plateale onnipresenza del sesso è perfettamente risolta in quella che forse Cesare Brandi chiamerebbe la sua «astanza». Ma quando si entra nell’inanimato il rapporto si fa più impalpabile. Vestendoli di gomma color carne, David Baskin maschera i contenitori dei cosmetici e rivela così l’origine non troppo segreta delle loro forme, portando alla consapevolezza visiva il subliminale che le ha modellate. Poi a volte è l’animato che cerca di divenire inanimato: la donna, è mobile? Mah: Verdi o non Verdi per diventare mobile la donna deve farsi immobile: così nelle sculture di Allen Jones riprese da Stanley Kubrick per Arancia Meccanica, che ispirano qui gli autoritratti fotografici in cui Jemima Stehli trasforma in tavoli e poltrone il proprio corpo rivestito solo da stivali o scarpe e attrezzato con lastre di vetro o cuscini. Uno starnuto, e si romperebbe tutto. Miti d’oggi? Imperi di sensi, casomai: la sezione dell’Erotic Food Design mostra il Nyotaimori (Ornamento del corpo femminile), che nel Seicento giapponese era un banchetto in cui venivano serviti sushi e sashimi sul corpo nudo di una ragazzatavolo. Sensi e anche doppi sensi: come in una delle poche irruzioni del linguaggio verbale (che per esserci, deve farsi esso stesso forma, allusione o graffito osceno), un poemetto verbovisivo di Giovanni Anceschi ottiene lo schematico ritratto di un volto componendolo con le sole quattro lettere che formano la parola CULO. Il titolo, opportunamente, è:
Giano.
Il prendere e l’essere presi, l’allungarsi e l’allargarsi, l’entrare in contatto e l’allontanarsi, l’arrivare e l’attendere, il penetrare e l’accogliere: fra un topos e l’altro le attività erotiche e le funzioni meccaniche si sono trovate a condividere lo scarno alfabeto delle posizioni nello spazio e col tempo hanno modellato forme di organi meccanici e biologici, con sapienti alternanze di rigido e cedevole, concavo e convesso, vivo e morto. La morfologia è la stessa. L’oggetto è una funzione del corpo. Ma per farsi lui oggetto il corpo deve non desiderare e immobilizzarsi (come imparavano perfettamente le povere donne-tovaglia del ‘600 giapponese), perdendo il connotato vitale del movimento, anche solo del tremito vibrante del respiro. La stessa vibrazione con cui il nostro desiderio invece anima non solo gli stimolatori sessuali ma anche gli altri oggetti della mostra, quelli non progettati per farlo: come i vasi che, in un’installazione di Nendo, paiono di materiale rigido ma sono di silicone e così risultano leggerissimi e deformabili al tocco. Veri oggetti emozionati, umane proiezioni della nostra aspirazione a una superiore, perché sensibile, cosalità.