Paolo Di Stefano, la Lettura (Corriere della Sera) 02/12/2012, 2 dicembre 2012
ARRIVANO GLI SPOSI PROMESSI - C’ è
piacere, insoddisfazione, eroismo e anche una forte dose di nevrosi e masochismo nello sforzo immane che Alessandro Manzoni profonde elaborando all’infinito il suo capolavoro. Da quando cioè, il 24 aprile 1821, si mette all’opera per quelli che saranno quasi vent’anni dopo, attraverso numerosi ripensamenti, I promessi sposi definitivi del 1840. È dunque un’impresa storica l’edizione critica che Dante Isella avviò negli anni 70 e che dopo la prima tappa del Fermo e Lucia (2006) vede ora uscire la cosiddetta «seconda minuta», nota con il titolo Gli sposi promessi (due tomi a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni), che porterà alla prima edizione 1827, presso Ferrario. Questa fase intermedia del lavoro manzoniano, nella sua complessità, vede la luce per la prima volta.
Ne viene fuori non solo un quadro filologico molto interessante, ma la personalità di uno scrittore tormentato, contraddittorio e autoironico, ossessivo e aperto alla collaborazione con altri, inesauribile nel rinnovarsi. Un carattere sperimentale, pronto a raccogliere sfide nuove e insieme preoccupato di comunicare con il proprio tempo. Insomma, tutto l’opposto di quel che ne ricaviamo dalle letture scolastiche, che trasmettono l’idea di un bacchettone.
Sarebbe utile mettere accanto alla monumentale edizione critica di cui si diceva alcuni saggi che, per una curiosa convergenza, sono usciti nelle ultime settimane, rivelando un nuovo interesse attorno al maggior narratore italiano. «Oggidì — scrisse Carlo Dossi — il rivoluzionario Manzoni lo chiamano reazionario!»: lo scapigliato autore delle Note azzurre amava, eccome, il Gran Lombardo. Lo si capisce benissimo dalla raccolta, curata da Guido Davico Bonino (Il mio Manzoni, Interlinea), che ha scelto le Note dossiane rivelatrici di questa ammirazione infinita. La riproposta de La lingua dei Promessi sposi (Il Mulino) del grande linguista Giovanni Nencioni mostra, attraverso una fitta serie di sondaggi, come Manzoni si affanni a soddisfare l’esigenza di una lingua comunicativa. Scrive Francesco Bruni, nell’introduzione: «Manzoni identifica il lessico fondamentale della lingua e, grazie alla fortuna del libro, lo dona agli italiani». Un utile riepilogo delle posizioni critiche, comprese le più recenti, viene offerto da Franco Suitner nel saggio I promessi sposi: un’idea di romanzo (Carocci), che può servire come originale (e vivace) vademecum scolastico: interessanti, per esempio, sono le pagine conclusive sul tanto discusso lieto fine.
E veniamo agli Sposi promessi. La ricostruzione testuale deve fare i conti con il temperamento del Manzoni, la cui pratica di scrittura viene sempre superata da nuove intenzioni: come se la penna non riuscisse a star dietro alla sua frenesia teorica e creativa. Il che costringe l’autore a rivedere, correggere, risistemare il lavoro compiuto. In questo magma, Gli sposi promessi rappresentano una fase cruciale: Manzoni sta terminando il Fermo e Lucia quando, il 15 luglio 1823, l’amico francese Claude Fauriel gli scrive per garantirgli l’uscita, in contemporanea con l’edizione italiana, di una traduzione a Parigi, dove il romanzo è molto atteso nei circoli letterari. La conclusione del Fermo slitterà al 17 settembre, producendo una «prima minuta», la cui revisione, che Manzoni prevedeva piuttosto rapida, si prolunga di molto, se è vero che l’inizio della stampa (realizzata man mano che i fogli vengono consegnati) avverrà nel luglio successivo. L’inizio.
Il processo tra la fine della «prima minuta» e l’elaborazione che porterà alla stampa dei tre tomi del romanzo nel ’27 viene analizzato attentamente nell’introduzione da Giulia Raboni, mentre l’apparato e le note si devono a Barbara Colli. Agiscono, nell’insoddisfazione di Manzoni, soprattutto due spinte. In primo luogo quella strutturale, che gli suggerisce di trasformare la costruzione a blocchi del Fermo (dove le vicende dei due protagonisti sono separate) in un’architettura ben più complicata, a incastri e intersezioni, in cui le azioni dei personaggi si intrecciano in senso davvero romanzesco. In secondo luogo agisce una preoccupazione linguistica sempre tesa a individuare una lingua approssimata il più possibile all’uso in chiave moderna e nazionale, come insegna Nencioni: se nel Fermo si cerca di concretizzarla attraverso un procedimento di traduzione analogica in italiano (dal lombardo o dal francese), man mano che avanza verso la revisione della «seconda minuta» Manzoni impiega in quantità crescente le espressioni e i termini postillati sul Vocabolario della Crusca (dove annota soluzioni tratte dalle sue letture dei classici, e in particolare dei comici toscani). Nel procedere con le correzioni, Manzoni passa le sue carte a un copista perché vengano sottoposte alla Censura e quindi utilizzate in tipografia: ma prima di essere avviati alla stampa, i fogli della copia Censura venivano ulteriormente e massicciamente rivisti un’altra volta dall’autore.
Insomma, quella che era annunciata come una semplice, per quanto cospicua, revisione diventa sempre più un testo autonomo. Gli sposi promessi, appunto, sono il risultato di una saturazione che conduce Manzoni alla rottura rispetto al Fermo e che comporta non solo aggiustamenti di stile, ma anche ripensamenti strutturali e persino «ideologici». Gli impegni di consegna saltano sotto gli occhi pazienti dell’editore amico, e Giulia Raboni ricostruisce con ricchezza di particolari la complicata cronologia di questa lunga fase generativa intermedia in cui l’autore lavora febbrilmente con materiali diversissimi: la «prima minuta» e cioè il Fermo, la copia Censura, carte nuove e carte destinate a rimanere inedite (il tutto inserito in un faldone sopravvissuto, i «Fogli staccati»), senza dimenticare i Vocabolari. Gli sposi promessi si configurano dunque come la fase dinamica di un romanzo che solo nel ’27, dopo tre anni dalla scadenza prevista, troverà una forma con un titolo diverso, I promessi sposi. Anche questa destinata peraltro a non soddisfare Manzoni per oltre un decennio ancora, cioè da quando a Firenze ha constatato che la lingua d’uso non è quella libresca della Ventisettana.
Una mente prodigiosa e nevrotica, eternamente in bilico tra aderenza alla verità storica da una parte, verosimiglianza e pura invenzione dall’altra; tra la cultura profondamente illuministica da un lato e l’ardente fede cattolica con le conseguenti suggestioni simboliche dall’altro. Una mente sempre ansiosa di calibrare al meglio spinte e controspinte fino alle idiosincrasie più minute riguardanti la grafia: da qui le numerose contraddizioni interne, i pentimenti che sollecitano talvolta il recupero di pagine cassate (come l’episodio di Cecilia o la sequenza di Renzo in fuga dagli untori con i forti chiaroscuri drammatici e le coloriture allegoriche che la accompagnano). Oppure, l’eliminazione di digressioni troppo cospicue, come quella riguardante l’Innominato, al cui ritratto si legavano considerazioni politiche sul governo spagnolo e sulle grida d’impunità poi escluse a favore di una dimensione misteriosa e romantica del personaggio.
Il pregio, tra i tanti, di questa edizione è quello di offrire la possibilità di leggere in maniera continuativa un’opera in fieri e stratificata, apprezzandone i continui sommovimenti sul piano narrativo e stilistico. In tutto questo lavorio, il nevrotico don Lisander chiama in aiuto il circolo dei suoi amici fedeli, Tommaso Grossi, che addirittura a un certo punto si stabilisce nella casa di Manzoni in via Morone, Torti, Rossari, Cattaneo, Visconti, lo stesso Fauriel. Si costruisce così, attorno al romanzo, una sorta di laboratorio collettivo. È vero che la riscrittura del secondo tomo, con la consegna al censore nel maggio ’25, sembra rivelare un andamento più spedito, ma in febbraio la moglie Enrichetta aveva scritto a Fauriel che Alessandro accusava un certo scoraggiamento e «un peu de fatigue de tête». Il vero tracollo si materializza però con il terzo tomo, quando i contatti con gli amici si diradano e l’attività di scrittura diventa più lenta e solitaria. Gli ultimi sei capitoli occupano un anno di intensa attività e solo l’11 giugno 1827, ormai sfinito, Manzoni concluderà la sua lunga maratona. Già però ha maturato l’idea di rimettersi in cammino. Verso Firenze.
Paolo Di Stefano