Emanuela Audisio, la Repubblica 3/12/2012, 3 dicembre 2012
SALUTANDO BECKHAM
A League of his own. Su Beckham a Los Angeles scendono i titoli di coda. David se ne va dai Galaxy. Ancora vincente a 37 anni. Un ragazzo con la voglia di pallone, ma anche un dad che si fa fotografare con il trofeo e i tre figli, Brooklyn, Romeo e Cruz (la quarta Harper è una bimba). Era in missione per il calcio, questo lo sapeva: «Devo riuscire dove nel ‘75 è fallito anche Pelé». È stato un lungo addio: sei stagioni, due titoli consecutivi nel campionato americano Mls (Major League Soccer), molti cross, 20 gol e tanti red carpet. Ora bisogna vedere se Dreaming California e Sognando Beckham hanno aiutato a crescere radici e a vendere il soccer che in America è minoritario e un fratello minore. I padroni per investimenti e organizzazione sono altri: football, baseball, basket. Beckham individualmente non se la passa male: 260 milioni di dollari secondo Forbes, 32 milioni e mezzo li ha avuti dalla squadra di Los Angeles. Ma la promessa a Hollywood, dove sono sempre molto attenti agli incassi, era un’altra: riuscire a vendere il prodotto calcio tra il popolo. Farne uno sport vero e non solo un viale del tramonto di vecchie glorie per immigrati pieni di nostalgia. Insomma: c’è un Beckham Factor?
Come le 300 mila magliette con il suo nome vendute nel 2007 all’epoca del suo trasferimento. E a calcio vince solo lui o anche le squadre e i paesi in cui gioca?
Ora David sta cercando casa a New York, ne ha quasi scelta una (cioè l’ha fatto sua moglie Victoria) dalle parti di Central Park, dove avrà vicino altri attori e miliardari per non sentire troppo la mancanza di Beverly Hills e dei vicini di casa Tom Cruise, Eva Longoria e Arnold Schwarzenegger.
Tre anni fa quando decise di svernare agonisticamente a Milano i tifosi del Galaxy lo fischiarono: la città delle stelle non gli bastava? Anche i suoi compagni gridarono al tradimento del capitano. Ora che se ne va, l’hanno coperto di abbracci e l’hanno osannato con i cartelli: «Take me with you». Su questo ha vinto: nel benvenuto e nell’addio. Nell’immagine molto americana della famiglia felice. In mezzo ci sta un periodo difficile: nelle prime due stagioni il Galaxy non riesce nemmeno a qualificarsi per i play-off. E le differenze di salario si fanno sentire in campo, i giocatori non lo amano: faccia tutto lui visto che guadagna così tanto. Anche Victoria,
con il suo passato da Spice Girl e il suo presente da disegnatrice di moda era vissuta come un personaggio inquietante e ridicolo. Ma l’anno scorso lei da sola ha venduto pezzi del suo marchio per 12 milioni di dollari e ora nel mercato asiatico la conoscono più come firma che come cantante pop.
Anche David è risalito, con coach Bruce Arena il Galaxy si è dato maggior equilibrio e ognuno ha trovato più fama. La Lega Mls ora ha più soldi. Più club: da 13 a 19, si sono aggiunti San Jose (2008), Seattle (2009), Philadelphia (2010), Vancouver e Portland (2011), Montreal (2012). Sono nati stadi per il calcio a Houston, Kansas City e Philadelphia, è stato completato quello nel New Jersey, rinnovati quelli di Montreal, Portland e Vancouver. La presenza media a partita è salita da 20.814 spettatori del 2006 ai 23.136 di questa stagione, altri giocatori europei come Henry e Keane hanno seguito l’avventura americana. La differenza di pubblico fra 2006 e 2012 è di 3 milioni di persone. Dove il soccer non sfonda è in tv: l’ascolto sale, ma molto lentamente. Don Garber, commissioner della lega, dice: «Beckham ha fatto tutto quello che gli avevamo chiesto. È stato un ambasciatore eccezionale del calcio americano nel mondo. Nel 2007 avevamo bisogno di lui per avere credibilità e visibilità, dovevamo dimostrare che il pallone a stelle e strisce voleva crescere. Ci piacerebbe restasse con un altro ruolo, forse comprerà una quota dei Galaxy». Da manichino a testimonial. Da fuoco fatuo a cometa. Doveva essere l’eroe dei due mondi: Europa e America. Ci è quasi riuscito: «Se il soccer in Usa è più seguito di prima mi ritengo soddisfatto».
David ci ha sempre messo la faccia, ora vorrebbe rimettere le gambe in Europa. Forse nella sua Inghilterra, forse a Parigi nel Psg. Lo avevano dato per bollito quando partì per l’America, cimitero di elefanti del calcio mondiale. Uno che cercava il cash facile e una morte agonistica con il trucco. Nessuno gli riconosceva la passione, l’essere rimasto un ragazzo di strada, che vuole giocare a pallone senza controfigure. Un figlio del popolo: madre parrucchiera, padre installatore di cucine. Però a suo agio in smoking e con il parrucchiere personale. Uno da vecchio calcio dentro, ma da nuovo fuori. Radici ed estetica. Periferia e alta società. Non solo un calciatore. Lo prendevano in giro: non è determinante, metterà un po’ di brillantini sul pallone yankee. Non ha cambiato l’America, ma il suo calcio si è rafforzato e non ha più la faccia dell’ospite sfortunato. Su quell’oceano lontano Beckham doveva annegare, invece ha cavalcato le onde del destino, e continua a surfare. Ci sta sempre tra i piedi, altro che sognando Beckham.