Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 02/12/2012, 2 dicembre 2012
I QUADERNI IN CELLA DI CUFFARO: «VISITE DA CENTO POLITICI»
Il detenuto di Rebibbia matricola 87833, tutte le sere che Dio manda in terra, segna su un doppio foglio protocollo, con un pennarello, i giorni trascorsi e quelli che mancano sui 2130 che deve scontare: «Ho cancellato la 376° giornata passata in carcere, me ne restano ancora 1754...».
Ogni tanto, per mesi, nella cella che divide con altri tre carcerati, ha riempito dei quadernetti di memorie. Spesso di notte, quando c’era finalmente un po’ di silenzio dopo ore di televisione e partite a carte e chiacchierate fiume. Sono diventati, quei quadernetti, un libro che esce domani mattina edito da Guerini. Si intitola Il candore delle cornacchie. Dove il canto di una cornacchia («Ce ne sono tante qui a Rebibbia») che si era posata sulla finestra della cella aprendo un breve e muto dialogo col prigioniero prima di volarsene via, rappresenta «il suono della libertà».
Letta la firma dell’autore, Totò Cuffaro, c’è chi si aspetterà un libro di memorie, rancori, velate allusioni, parole dette e non dette. Non è così. Certo, l’ex governatore della Sicilia insiste sulla sua innocenza: «Nessuno ha potuto dire che ho rubato o che mi fossi sporcato le mani. Ed allora che trovano? Un favoreggiamento per aver dato notizie riservate ad un politico mio amico, che poi le avrebbe date ad un mafioso. Informazione che avrebbe consentito al mafioso di scoprire la microspia che i Ros, per ordine del pm, avevano messo a casa sua, e quindi vanificare l’indagine. Non è servito tenere ed avere le mani pulite. È stato peggio. Si è trovato il modo per sporcarmi più gravemente». Ma come dice ironico un detenuto nel film Le ali della libertà, «qui dentro siamo tutti innocenti».
Non è questo, il succo del libro di Cuffaro. Che non nomina mai Michele Ajello proprietario della clinica Santa Teresa di Bagheria e mai se non di striscio gli altri protagonisti della sue vicende, politica e processuale. Chi vuole vederlo solo come un uomo di potere messo in galera per i suoi rapporti con figuri impresentabili, sia chiaro, può trovare nel libro spunti di diffidenza anche nei suoi silenzi su questo o quel tema. Può dire: ben gli sta, e passar oltre. Così come chi ha sempre evidenziato le contraddizioni tra la sua spregiudicatezza politica e la sua devozione mariana da «lupetto» di parrocchia anni Cinquanta, può sorridere annotando che Totò nomina, prega, supplica in tutto 57 volte la Madonna, otto la Madre Celeste e poi la Beata Vergine e via così per non dire delle invocazioni al buon Gesù e del bagaglio carcerario comprendente i santini di Don Bosco e padre Pio, della Madonna di Lourdes e di quella di Medjugorje.
Chi voglia andare oltre, però, nel rispetto dovuto a chi è andato in galera senza strillare insulti contro i giudici ma anzi accettando la sentenza con una dignità riconosciutagli anche dagli avversari, può trovare nel racconto dell’ex governatore molto di più. L’umiliazione delle manette così inutili per chi si era consegnato docilmente. L’assurdità del sequestro all’ingresso a Rebibbia di un plaid che gli aveva messo in borsa sua moglie Giacoma. L’ispezione corporale subita, tutto nudo, in una stanza gelida. L’incubo del «regolamento»: questo no, questo no, questo no...
Colpiscono i dettagli. «Mi lavo le mani almeno venti volte al giorno». «Continuo a chiamare al telefono mio padre e mia madre, sempre solo due volte al mese, sempre per soli cinque minuti per volta». «Una donna mi sta scrivendo una cartolina ogni giorno. La prima l’ho ricevuta qualche giorno dopo che sono entrato in carcere, mi scriveva: “Ti terrò compagnia ogni giorno con un pensiero, ti accompagnerò per tutti i giorni che starai in carcere”. Mi scrive e ricevo le sue cartoline da tutte le parti del mondo, ognuna reca con sé un pensiero sempre bellissimo, ne ho già collezionati 314, le sto conservando tutte. Non so chi sia, so soltanto il suo nome, Antonella». E sempre il rimpianto per la famiglia, il paese, la fattoria in campagna dove tiene pecore e capre girgentane della razza di Amaltea che allattò Zeus e la cavalla Ginevra e otto cani tra i quali due cirnechi dell’Etna di nome Diana e Tolstoj.
Corre, Totò Cuffaro. Appena può correre, in cortile, corre. Immaginandosi sulla via di casa: «Facendo 55 giri di campo per 175 metri ogni giro sono 9 km e 625 metri al giorno avrò bisogno di 110 giorni per fare 1058 km, tanti ce ne sono da San Michele di Ganzaria, dove si trova la mia azienda, sino a Rebibbia».
Certo, un detenuto proprio come tutti gli altri non è: «Oltre cento parlamentari sono venuti a farmi visita, deputati, senatori, parlamentari europei. Tanti prelati, ecclesiasti, semplici sacerdoti, monaci, suore, vescovi, qualche cardinale». Tra gli altri Casini, Follini, Alfano... E su tutti, Marco Pannella, «un portento della natura, un uomo inesauribile e di una umanità prorompente» che con una generosità gratuita si presentò la notte del 31 dicembre per cenare con gli agenti e fare sentire i detenuti, compreso lui, un po’ meno soli.
La parte più interessante, forse, è proprio quella dedicata agli altri carcerati. Come Ciccio, un ergastolano, «detenuto modello, buono, educato, disponibile, rispettoso di tutti, volenteroso; in tutti questi anni di carcere già fatti, oltre a lavorare ha anche studiato, si è diplomato ed adesso è al terzo anno di università, Giurisprudenza; anche io sono iscritto in Legge e quindi siamo due volte colleghi, di carcere e di università». E poi Halid, un rom musulmano che non può vedere la moglie perché non ha il permesso di soggiorno e che gli ha chiesto, per amicizia, di fare insieme il Ramadan. E ancora Santino, il compagno di cella che il primo giorno gli preparò la branda per fargli sapere che era il benvenuto. E Lamin, figlio di un capotribù dei Kunda destinato lui stesso a diventare capotribù se in carcere non si fosse malato di tristezza: «È scheletrico, ha dolore in tutto il corpo, mangia pochissimo, vomita sempre, non riesce a dormire...»
Sì, sono storie che ogni detenuto potrebbe raccontare. Non solo l’uomo che a lungo è stato il padrone della Sicilia. Vale la pena però di sbarazzarsi di qualche pregiudizio di troppo per leggere almeno la storia di Gigino che una mattina fu trovato impiccato nella sua cella. Due celle distante da quella di Totò. Aveva 65 anni, doveva farne 14 per omicidio preterintenzionale e nessuno si ricordava più di lui: «Non faceva colloqui da 7 anni, non lavorava, non stava molto bene. Piccolo, magro, non parlava volentieri, passeggiava sempre solo. A me che lo salutavo e lo trattavo sempre molto gentilmente aveva dato una grande prova di apertura di fiducia, mi aveva espresso un desiderio, lui che non chiedeva niente a nessuno, mangiava solo il vitto del carcere, mi aveva chiesto se potevo fargli gustare lo sfincione, tipica pizza in teglia siciliana. È stato contento Gigino quando gli ho dato lo sfincione che avevo fatto portare per lui, lo ha diviso con i suoi compagni di cella, e mentre lo mangiava è stata la prima e l’unica volta che l’ho visto sorridere».
Gian Antonio Stella